L'addio della classe operaia di classe. Adriano Malori lascia il ciclismo
Il ciclista italiano, tre volte campione italiano a cronometro, termina la sua carriera a ventinove anni. Nel 2016 un terribile incidente gli rallentò la carriera. Peccato
La modernità è nel ciclismo un incidente di percorso. Ogni tanto si intravede, si fa palese, ma fortunatamente viene dimenticata a ogni racconto che riemerge dal passato, sia questa epica, notoria oppure perla rara. C'è ed è impossibile negarla, ma c'è solo in rapporto a quanto accaduto prima. Uno scatto è uno scatto alla X, una fuga è una fuga alla Y, uno sprint è uno sprint alla Z. Le variabili sono nomi e i nomi cambiano a seconda della situazione. Quando giunge il tempo di aggiornare l'archivio, un nome nuovo si sedimenta su quelli già presenti e tutto fa in modo di cambiare il meno possibile. E' un rapporto parentale, strettissimo, che non cambia con i nuovi materiali che alleggeriscono le bici, con le nuove tecnologie che alleggeriscono la pedalata, con le nuove trovate che alleggeriscono le responsabilità. La bici è due pedivelle da far girare e due ruote da far scorrere. E' così da sempre. E' così perché così dev'essere.
E' per questo che quando un corridore si ritira, sia stato un capitano oppure un gregario, sia stato un vincente oppure un faticatore per cause altrui, la modernità si prende una pausa, abbraccia il passato e passato ritorna. E così quando un corridore si ritira viene da pensare a quello che è stato e quello che poteva essere e nel caso di Adriano Malori è stato tanto, se non per vittorie, quanto meno per impegno, per impossibilità di essere diverso da quello che era: insostituibile.
"La mia carriera ciclistica finisce qui, da oggi tocca all'Adriano Malori 2.0". Una conferenza stampa, un sorriso, l'evidenza che in corsa Malori non tornerà. "Dal giorno della caduta al Tour San Luis 2016 ho combattuto una battaglia, l'ho vinta anche se non fino in fondo. I medici, lo ripeto e l'ho raccontato nel documentario che abbiamo realizzato pochi mesi fa, sono rimasti increduli di fronte al mio recupero e spero che il mio esempio possa continuare a servire da esempio a tutti coloro che soffrono di problemi seri".
Era il 22 gennaio 2016 quando Malori guidava il gruppo al Tour de San Luis in Argentina. Mancavano trenta chilometri quando la sua ruota anteriore si infila a 50 all'ora in una crepa. Il corridore viene sbalzato a terra, picchia la testa prima di essere travolto da mezzo gruppo. Trauma cranico e clavicola rotta. Perdita di conoscenza e coma farmacologico. Poi la lenta riabilitazione.
Lenta come lui non è mai stato. Un treno che asfaltava a cronometro le distanze, che aveva ridato all'Italia lustro in quella disciplina nella quale eravamo maestri, ma in tempo ancora di immagini in bianco e nero, o a colori confusi e slavati. Campione mondiale U23 nel 2008, tre volte campione italiano a cronometro, due tappe della Tirreno-Adriatico e una della Vuelta a España, un giorno in Maglia Rosa. Contro il tempo e contro tutti. E poi in testa, a farsi il mazzo per gli altri, a chiudere divari, recuperare avversari. Malori era classe operaia, ma classe operaia di classe, di quella che poche volte appare e quando te la trovi in squadra non puoi far altro che amare, ritenere indispensabile.
Malori lascia che non sarebbe stata ora, perché a ventinove anni non è mai ora. Ma che lo è diventata perché l'evidenza diceva questo. Malori lascia e ci mancherà, perché così non può non essere.