Giù le mani da Froome
La bellezza degli attacchi alla maglia gialla durante la quindicesima tappa del Tour de France e gli orribili fischi e insulti al keniano in salita. Perché i tifosi continuano a gettare fango sul capitano della Sky
Un frate di legno indica la via, quella che sale verso il Col d'Hospitalet du Sauvage, verso la chapelle Saint-Roche, verso Santiago di Compostela. I corridori del Tour de France però non la vedono, non badano al suggerimento, proseguono per la direzione opposta, quella a scendere, quella che porta alle venti case e sessantadue anime di Prades, Alta Loira, Massiccio Centrale. Gli avanguardisti sono in anticipo di oltre dieci minuti, corrono alla ricerca del traguardo, rincorrono la loro grande occasione. Il gruppo insegue e basta, ma blandamente, disinteressandosi dell'orologio, curando di risparmiare il più possibile le gambe dei capitani, le stesse che sulle Alpi, mercoledì e giovedì, dovranno menare il più possibile per riscrivere la classifica generale, provare a rivoltarla oppure evitare che questo possa succedere. I caschi gialli del Team Sky controllano il gruppo mentre la strada scende dolce, mentre il capo classifica Chris Froome mangia un panino, beve un po' d'acqua, si guarda attorno per vedere il panorama. Saugues passa veloce accanto ai corridori e con essa la lenta camminata dei nuovi pellegrini, fedeli più al movimento pedestre che allo spirito divino. La strada lascia l'altipiano, si stringe, si inabissa nei boschi, diventa un vortice.
Romain Bardet è nato a Brioude, che da Saugues sono cinquanta chilometri, da Prades ancor meno. Queste strade le conosce, le capisce, sa cosa possono dire. Conosce bene il carattere rivoltoso delle sue zone, antica Alvernia, valli e colline di Vercingetorige, di agguati e briganti, di re mai amati e tentativi di sovversione. E così con un hop e un cenno con la mano schiera i suoi a testuggine, accelera, dà un botta di squadra proprio alla squadra padrona. Il movimento è veloce, lo stupore invece lungo oltre dieci chilometri, quelli necessari ai sodali della maglia gialla per riprendere gli attaccabrighe. Chris Froome parlotta, ringrazia i compagni per il pericolo scampato quando il pneumatico posteriore si affloscia. E' un attimo, quello che potrebbe rivoluzionare il Tour.
L'Ag2r, la formazione dell'enfant du pays, continua a fare quello che stava già facendo a ricongiungimento avvenuto: menare duro sulle pedivelle, ma questa volta all'insù, verso il Col de Peyra Taillade. Bardet incita, allez allez. Froome sbuffa, prende la ruota di un compagno di squadra e inizia a frullare. Al suo fianco arrivano due gregari che spingono forte per tentare di recuperare i quaranta secondi di margine. Bardet continua a incitare: allez allez. Le maglie bianche marron e azzurro a cubetti spingono, tentano il volo, aprono gli occhi e provano a sognare. Quelle bianche soltanto invece son un ghigno di fatica, gli occhi li socchiudono, i loro fisici si incurvano: Henao e Kiryienka picchiano il possibile e quando non ne hanno più si spostano e a fatica riescono a rimanere in bicicletta pieni di acido lattico. Bardet zompetta dietro i suoi gregari, avrebbe voglia di partire, ma non lo fa. Froome frusta la sua bici, muove le gambe che sembrano un vortice, recupera, è atteso pure dall'ultimo dei gregari, quello che di essere guardiano non ha poi troppo voglia, Mikel Landa, sesto posto in classifica e un'ambizione nemmeno troppo nascosta di capitanato.
I venti minuti di golpe si risolvono con un niente di fatto. Si risolvono con la consapevolezza di Bardet di aver perso un'occasione e quella di Froome che sarebbe potuto andare molto peggio. Si risolvono con una salita intera che era un tripudio di allez Bardet, che al passare dei secondi diventava un muro di fischi e buu e insulti contro il britannico.
Le difficoltà del tre volte vincitore del Tour sono diventate un pretesto sportivo per rivalse extra sportive, quelle contro un ragazzo che stava realizzando un recupero eccellente, una prova di carattere e forza, contro sfortuna e avversari che giustamente cercavano di sfruttarne i problemi. Il problema è il solito: Froome non piace, per come pedala con gli occhi sul computerino di bordo; per quel suo modo un po' algido di rapportarsi con il mondo; perché è visto con sospetto perché sospetta, almeno per il pubblico, è la sua trasformazione in campione, da uomo che si attacca a una moto per superare il Mortirolo, come se fosse il primo vincente ad aver incontrato difficoltà nei primi anni di professionismo; perché sospetto, sempre per il grande pubblico, è il motivo che sta alla base dei successi della Sky.
Froome paga in prima persona i dubbi di un mondo che non ha mai superato il trauma del doping, degli atleti pompati a Epo e ormoni. E poco importa se tutti i controlli a cui si sia sottoposto siano risultati negativi. E poco importa se questo sia successo anche per tutti i suoi compagni. E questo dal 2010. Froome rimane il male del ciclismo, quello da evitare come la peste, quello che non lascia spazio alla fantasia, che è programmazione e cura maniacale per i dettagli. La sua colpa è vincere e non emozionare, nemmeno quando si butta come un pazzo verso Bagnères de Luchon giù dal Col de Peyresourde al Tour dell'anno scorso, un colpo d'effetto seduto sul tubo della bici.
Il pubblico lo chiama cyborg e guarda alla Sky come un laboratorio mengheliano. E lui il risultato più brillante di quel monstrum. Eppure la formazione inglese è quella che investe maggiormente in tecnologia e ricerca, quella che cerca i migliori talenti delle università inglesi tutte al servizio di quello che a oggi risulta uno dei più straordinari preparatori della storia del ciclismo, Tim Kerrison. Il pubblico lo chiama cyborg e lo fischia in salita. Eppure non ci sono prove di una sua possibile colpevolezza, non ci sono nemmeno indizi. Gli stessi che non sussistevano per Fabio Aru, sulla cui immagine c'ha pensato il Monde a provare a gettare ombre. La giusta indignazione provata per il sardo sarebbe il caso di usarla anche con Froome. Indipendentemente dalle preferenze personali.