Fabio Aru (foto LaPresse)

Al Tour l'Izoard premia Barguil e rimanda Aru. Ma per il sardo ci vogliono solo applausi

Giovanni Battistuzzi

Atapuma è avanguardia per un giorno, prima della cavalcata finale a pois del francese. Bardet guadagna quattro secondi a Froome conquistando l'abbuono. Uran non si stacca. Tre uomini si giocano la vittoria in trenta secondi: mai visto

Quel cavo d'acciaio che il mattino del 7 agosto 1974 divenne salvezza ed esaltazione per Philippe Petit nella sua folle attraversata delle Twin Tower nel vuoto dell'aria di New York è lo stesso che unisce Vars e Izoard. Sopra di esso un gioco di equilibrio tra due monumenti, che sono verticali e naturali, che sono boschi e rocce, pendenze e cattiveria. E' equilibrio di pedalate e di classifica, cinque uomini in nemmeno novanta secondi, ma che era mattino, ma che erano centottanta chilometri in meno, quelli alpini, quelli che sono storia e sono un solo verso: VarsIzoard. Le Alpi più antiche del Tour de France sono l'ultimo palcoscenico montano di una lotta che ancora non è finita. Perché dietro alle galoppate francesi di Warren Barguil, ancora ad anticipare il gruppo, ancora a tentar la sorte prima che la sorte possa essere compromessa dai migliori della classifica, ancora primo e questa volta in cima alla storia del ciclismo e per di più in maglia a pois, che vuol dire essa stessa salita, scalata, montagna; perché dietro alla determinazione colombiana di Darwin Atapuma, avanguardista che era ancor mattina, appaiono dall'ultima curva Romain Bardet, Chris Froome e Rigoberto Uran, ossia sempre loro, incapaci di staccarsi l'uno dall'altro, perché simili eppur diversissimi, forti in maniera identica, duri a morire. Il francese e la maglia gialla sprintano e finisce che Bardet rosicchia quattro secondi d'abbuono che male non fanno, ma nulla cambiano: sabato il ring sarà a cronometro e Froome contro il tempo sa menare meglio degli altri, sicuramente del francese, probabilmente di Ciccio Uran. Il colombiano non si è staccato neppure oggi, se non per due secondi, ma sono inezie, e ha risposto così alla domanda che tutti i tifosi si facevano: quando crolla Uran? Mai. Perché un Rigoberto così non lo si è mai visto, forte è sempre andato, ma mai con questa determinazione e cattiveria: buone nuove dal Tour.

Le Alpi dicono arrivederci alla corsa per quest'anno e rimane un abbraccio di ventinove secondi. Tanto è quanto ha di vantaggio la maglia gialla dal terzo. Tanto rimane, anche se nessuno dei tre avrebbe voluto questo. Perché Bardet ha provato a menare, sia di squadra, con i gregari in fila indiana e a testa bassa a guardare l'asfalto, sia da solo, con uno e due e tre allunghi, ma senza staccare sua maestà maillot jaune. Perché Froome ha tirato una delle sue frustate e il vuoto l'ha fatto, abbastanza almeno da far tremare i suoi rivali. L'ha fatto però nel punto sbagliato, ché la strada si rabboniva e addirittura si faceva discesa. A Uran invece che questo sia lo scenario va bene, perché lì tra i due mica ci doveva essere, perché contro il tempo sa battere molti, e una volta anche il keniano, perché un podio è tanta cosa in ogni caso.


Così all'arrivo


Podio che ha perso e questa volta senza appello Fabio Aru. Su Ventu si è intrappolato ai margini del gruppo, abbandonato dalle gambe, dai compagni di squadra, ma non dalla testa. Che è dura, che è forte, che non perde un colpo. L'orologio al suo passaggio in cima all'Izoard si ferma ottantadue secondi dopo quello di Barguil, quello della classifica generale segna un ritardo di un minuto e cinquantacinque e ha il bollo della quinta posizione. Una delusione? Non scherziamo. Perché noi italiani siamo bravissimi ad analizzare le cose e a demolire in anticipo chi potremmo applaudire in futuro. E Fabio Aru lo applaudiremo ancora a lungo. Perché a ventisette anni di chilometri da percorrere ce ne sono molti e di gran qualità; perché il Tour è un gioco al massacro di gambe e di testa e se le prime sono mancate e la seconda no è già molto: chiedetelo a Miguel Indurain; perché soprattutto Aru doveva essere pronto per il Giro d'Italia, cioè maggio, e ha dovuto ripiegare sul Tour, cioè luglio, e questo ha il suo peso, soprattutto se devi affrontare due bestiacce come Froome e Bardet che hanno centellinato energie e allenamenti per mesi e mesi interi.


Così in classifica generale


Aru quinto è tanta roba. Aru quinto è una notizia e una notizia positiva. Aru quinto è peggio di Aru in maglia gialla, questo è certo, ma è stato un suo regalo, un gesto di magnanimità per lo sgangherato ciclismo italiano. Su Ventu oggi ha dato dimostrazione che quando le gambe non sono poi così buone a tenerti a galla è la cattiveria. E quella ce ne è e ce ne è tanta. 

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