La chiesa in bicicletta. La suora Indurain e l'insegnamento di Bartali e Don Camillo
Orio Vergani che si stupisce per i preti sulle strade del Giro, Bartali che lo corregge sottolineando il contributo dei sacerdoti nella ciclistizzazione dell'Italia. E quel video della monaca in bici
Era il 1936 e Orio Vergani al seguito del Giro d'Italia annotava con stupore una novità che avrebbe accompagnato il Belpaese per almeno un ventennio: "Non si è mai visto un Giro con tanti preti venuti sulla soglia della chiesa magari con una bandierina in mano. Un Giro con tanti fraticelli che aspettavano pazientemente sotto gli alberi. Un Giro con tanti seminaristi allineati sui viali fuori porta e con tante monache che portavano fuori dal cancello della loro scuoletta le bambine che battevano le mani anche loro. Questo è un Giro di credenti". Gino Bartali a zompettar in salita sulle pedivelle con il crocifisso al collo dominava la Corsa rosa e sfidava come nessun sportivo aveva mai fatto il regime fascista. Parlava di Dio e di preti, con Dio e con i preti e vinceva, ringraziando la Madonna per l'intercessione. Il Partito? Non pervenuto nelle sue parole. Il Duce? Mai neppure citato. Era uomo di fede Ginettaccio e per lui la politica era azione, ma cattolica, e gesto ispirato e sociale, ma ecclesiastico non nazionale. Parlava anche con Orio Vergani e non risparmiava critiche: "Non è il Giro ad aver portato i preti sulle strade, ma la chiesa ad aver permesso ai ragazzi di raggiungere le strade del Giro", disse l'8 giugno al giornalista del Corriere della Sera.
Preti in bicicletta come Don Camillo uscito dalla penna e dall'immaginazione di Giovannino Guareschi. La faccia per tutti è quella di Fernandel, la storia però è altra ed è reale, intersezione letteraria tra don Camillo Valota, partigiano della seconda guerra mondiale e detenuto nei campi di concentramento di Dachau e Mauthausen, e don Ottorino Davighi, parroco di Polesine Parmense conosciuto personalmente dallo scrittore. Loro come altri, come moltissime tonache nere che scorrazzavano tra le campagne italiane e che cercavano, per quanto possibile, di dar ai giovani una prospettiva di futuro. Un futuro che, perché no, poteva anche essere a pedali.
"Che i giovani pedalino via dalla povertà, come fece Bottecchia", diceva mons. Romano Citton che a Roncade, in provincia di Treviso prendeva vecchie biciclette e ci metteva in sella i ragazzini. Poi creò una squadra ciclistica a Treviso per farli correre, nonostante il parere contrario del gerarca fascista del luogo. Scoprì Antonio Bevilacqua, velocista eccellente, undici vittorie al Giro tra il 1946 e il 1953 e l'impresa alla Parigi-Roubaix del 1951, solo a mani alzate al traguardo dopo aver domato il pavé e staccato Louison Bobet e Rik van Steenbergen, che sulle pietre avevano scritto una parte consistente della propria storia ciclistica.
E poi più giù, che era Toscana, che ancora Gino Bartali e qualche anno prima, che era don Lorino della chiesa di San Paolino a Firenze e le sue storie di eroi in bicicletta e di biciclette donate alla chiesa da un ricco devoto e poi distribuite a chi ne aveva bisogno. Per lavorare, mica per diletto, ma tanto bastò a Ginettaccio per inforcarne una e iniziare a pedalare.
Non era passato nemmeno un ventennio da quando Papa Pio X inviò all’Arcivescovo di Ferrara, Giulio Boschi, Presidente dei Vescovi dell’Emilia Romagna un lettera nella quale chiedeva ai vescovi di denunciare quei sacerdoti che utilizzavano la bicicletta per i loro spostamenti perché "è tempo veramente di finirla con questo abuso tanto indecoroso per il clero”. E tutto era cambiato. Il paese si muoveva a rilento e la chiesa provava a pedalarlo.
Storie di quasi un secolo fa di tonache nere che si muovono al vento. Come quelle della suora spagnola che sulla strada del Cammino di Santiago de Compostela vola in discesa come un Nibali qualsiasi, sdraiata a ricercar l'aerodinamicità.