Sagan, il terzo mondiale e il suo cannibalismo dolce

Giovanni Battistuzzi

Mai nessuno prima dello slovacco ha conquistato tre campionati del mondo di fila. Ma il suo dominio è umano, perdente, e continua a piacerci

Come mai prima, com'è giusto che fosse. Peter Sagan davanti e dietro tutti quanti. Peter Sagan primo allo sprint, campione del mondo. E sono tre: Richmond 2015, Doha 2016, oggi Bergen 2017. Mai nessuno prima di lui. Si vedrà se ci sarà qualcuno dopo. Difficile farlo ora, anzi quasi impossibile ché viene più facile immaginare una quarta maglia iridata piuttosto di pensare di celebrare un successore. Il ciclismo dalla Norvegia ritorna a casa cannibalizzato, come forse ai tempi di Eddy Merckx, come non era mai successo forse nemmeno ai tempi di Eddy Merckx.

 

Il belga vinceva e vinceva quasi sempre, 525 vittorie in nemmeno 1.800 gare, un'iradiddio che generava in tutti gli appassionati un senso di dominio e ineluttabilità. Il belga vinceva e vinceva di tutto: mondiali e classiche, grandi giri e corse di un giorno, chi assistette alla sua tirannide ricorda un corridore perfetto, una macchina dal motore che sembrava di cilindrata maggiore di tutti gli altri, un despota che non aveva altra legge se non quella della vittoria. Peter Sagan di vittorie ne ha incasellate invece cento e una, oggi l'ultima, la terza iride. Ha vinto mondiali e classiche, tappe ai grandi giri e molte corse di un giorno. Ma il suo non è ancora un dominio, non riusciamo ancora a considerarlo tale, perché forse tale non è. Se Merckx era soprannaturale, si nutriva di gloria e di insuccessi altrui, pur rimanendo umanamente vicino agli umani che ogni tanto gli mettevano la ruota davanti, lo slovacco continua a essere umano, anzi umanissimo. Le sue vittorie, seppur tante, sembrano sempre sconfitte evitate, nonostante la magnificenza del suo ciclismo. Un ciclismo di testa, per posizione, ma di anima, per come viene messo in pratica a ogni corsa. Perché Sagan ha in sé il dannato senso scenico della sconfitta, del piazzamento. Domina ma trova il modo di mettere la sua superiorità al servizio della beffa, della vittoria altrui. Come alla Milano-Sanremo di quest'anno: primo Michał Kwiatkowski; come in quella del 2013: primo Gerald Ciolek; come al Giro delle Fiandre del 2015: primo Alexander Kristoff e lui addirittura quarto; come al Tour de France del 2015: sempre piazzato e mai vincitore.

 

C'è qualcosa di tragico, nel senso teatrale del termine, in Peter Sagan che ci permette di non accorgerci della sua dimensione cannibalesca, che permette di eleggerlo a vincitore unico della supernazione ciclistica. Un corridore europeo, non solo slovacco, un campione amato anche fuori dai confini slovacchi, ammirato più che invidiato. In lui c'è la possibilità di conquistare ogni corsa e poter perderne qualunque. E' un Godot che arriva, un Pierrot che raggiunge la luna, un Arlecchino che pranza in una tavola imbandita. La sua superiorità è un gesto naturale, ma vicino, che sfugge alla logica del dittatore.

 

E così alla fine del tunnel di buio televisivo nel quale la regia norvegese ha lasciato milioni di telespettatori, al riemergere del gruppetto, la luce ha seguito la sua bicicletta lanciata contro quella quasi imprendibile del padrone di casa, Alexander Kristoff. Il suo sorpasso è diventato un colpo di giustizia, la mezza ruota di vantaggio il tripudio di uno sport che ha amato sempre i campioni, ma di più i battuti. Sagan primo e ancora con l'iride sul petto è sembrato il giusto finale di un campionato del mondo che non ha detto molto, se non che l'Italia corre bene ma non vince, perché per vincere ci vogliono i migliori e noi ancora non ne abbiamo, se non che uno slovacco ha vinto ancora e ha vinto perché di meglio non c'è.

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