Il Lombardia è cosa da Nibali, mentre Cherel esplora il mito

Giovanni Battistuzzi

Lo Squalo scatta verso Civiglio e vola verso Como. E' il suo secondo successo alla classica delle Foglie morte. Prima il francese riesce a superare per primo Ghisallo e Muro di Sormano

Il Lario è un punto blu in mezzo a picchi montani vestiti di verde dove le strade sono rare apparizioni. Quelle che ci sono, costeggiano l'acqua, alcune solo hanno l'ardore di inerpicarsi verso le vette. Quelle che ce la fanno non sono vie, sono epopea, non sono asfalto, sono tratti di storia del ciclismo, terra di conquista. Il lago di Como e la protesi di Lecco, sono stati avanguardia di battaglie, territori buoni per tentativi di espansione. Da sud verso nord, i milanesi, da nord verso sud, le popolazioni germaniche, siano essi longobardi o Sacro romano impero, in mezzo l'orgoglio laghé capace di adattarsi ai vari conquistatori senza perdere la propria (parziale) indipendenza.

 

La storia dei luoghi si mescola con quella del ciclismo, quella del Giro di Lombardia, che percorre la sua centoundicesima edizione, e si presta a tentativi di conquista a pedali. La salita verso Civiglio tribunale di appello per voli ciclistici, quella di San Fermo della Battaglia, come Cassazione, giudizio finale e insindacabile. E' lì, verso la penultima ascesa, che Vincenzo Nibali tenta l'assolo. Una botta in salita, una cavalcata in discesa, proseguita per il piano di Como, per l'erta cara a Giuseppe Garibaldi, e poi verso il traguardo. Primo, secondo Lombardia conquistato in carriera, bis del successo in maglia tricolore del 2015, sempre a Como, sempre in faccia al lago. Primo dopo una corsa messa nel mirino, dopo una corsa di testa e uno scatto dalla testa, di gambe e di intelligenza, da campione qual è. Chapeau. Lo stesso da abbassare per Gianni Moscon, terzo al traguardo dopo scatti e resistenza, presente e futuro.

 

Ma se la giustizia ciclistica è espressa dall'ordine d'arrivo, che con sé porterà negli anni glorie e sconfitte, è ben prima delle ultime due salite che il Giro di Lombardia da corsa diventava racconto, poema. Romanzo di cavalieri erranti che non hanno la maestosità di Orlando o di Goffredo di Buglione, bensì la sgarrupata vitalità di un don Chisciotte.

 

Mikaël Cherel non è spagnolo, è nato in Francia, ma dell'hidalgo di Cervantes, ha la tenacia e il senso dell'azzardo, soprattutto la capacità scenica della sconfitta. Non ha mai vinto il corridore della FDJ e se ne è guardato bene di farlo oggi, in quella Como che è trono di vescovi e imperatori, mica posto per figuranti del pedale. Cherel della vittoria se ne è fregato perché c'era altro da conquistare, qualcosa che nessuna coppa o nessuna medaglia può dare: il senso spettaolare dell'esplorazione, quella di toponimi che più che luoghi sono mito: Ghisallo e Muro di Sormano. Il francese li ha attraversati per primo, come Girardengo, il primo ad affacciarsi al santuario della santa protettrice dei ciclisti; come Imerio Massignan, il primo a scollinare quella lama di sofferenza che scavalla il fronte montuoso che separa i due rami del Lario. Cherel non vince e poco importa. Non lo fa perché è uomo che dà tutto prima, o per i capitani, o per il senso scenico della testa del gruppo. non lo fa perché è giusto così, perché se tutti cercano la vittoria c'è qualcuno che deve sacrificarsi per rendere questo sport meraviglioso.