Guardare il Giro d'Italia per modificare la mobilità cittadina
L'importanza dello studio del territorio (e del ciclismo) per rendere le nostre città ciclabili. Spunti da un libro di Paolo Bozzuto
Se è vero che la bicicletta "la si ama come l'ultima delle fantasie", come cantava Paolo Conte in Velocità silenziosa, attorno alla bicicletta esistono almeno tre approcci, tre dinamiche che sebbene simili, conducono a esperienze e sensibilità differenti. C'è una componente sentimentale che lega il mezzo a chi lo pedala, che può essere più o meno intenso, più o meno sviluppato; una componente urbana, quella percepita da chi utilizza la bici prevalentemente come mezzo di trasporto; una componente sportiva che altro non è che quella vissuta da chi fa muovere i pedali come passatempo o competizione, di chi insomma la bici la vive all'interno di una dinamica, anche se non competitiva, per lo più finalizzata all'attività fisica.
Sono tre aspetti che a volte collidono, che non sempre si intersecano, perché se il primo è legato a una dinamica psicologica che può essere comune alle ultime due, la componente urbana e quella sportiva possono addirittura confliggere, essere in disaccordo, non parlare la stessa lingua. C'è tra queste un doppio registro che molte volte non trova un terreno comune di incontro, nonostante il mezzo, ossia la bici, sia identico o quasi. Perché questo richiama due mondi che pur vivendo in un rapporto osmotico, si muovono su due registri differenti: da un lato la mobilità, dall'altro la competizione, da un lato il ragionamento sul come muoversi entro uno spazio limitato, dall'altro il racconto sportivo, l'epopea di salite e discese, di velocità e resistenza. Insomma la bici come bici e la bici come ciclismo.
Sono differenze minime, sottigliezze che però a volte trovano una forma di incomunicabilità tra mondi affini, ma non identici, ossia quello dei ciclisti urbani e dei ciclisti e basta. Una differenza che ogni anno ritorna in auge quando il Giro d'Italia viene presentato e poi corso.
Ieri, a margine della presentazione del percorso del Giro101, sui social network questi due mondi sono tornati a battibeccare, non a scontrarsi ché il substrato è lo stesso, le strade che vengono percorse dalle due categorie sono del tutto simili e presentano gli stessi problemi, ossia la sicurezza. E così, tra chi chiede meno Giro e più interventi per i ciclisti urbani, e chi più Giro e più interventi per il miglioramento della mobilità urbana ed extra-urbana, qualche frecciatina c'è stata, qualche forma di incompatibilità si è ancora palesata.
Eppure, almeno a vederla da fuori, l'azione è la stessa: una persona a cavalcioni di una bicicletta, pedali che si muovono, silenziosa velocità.
Eppure ci sarebbero poco meno di duecento pagine di analisi lucidissima e intelligente, che questi due mondi li avvicina, li unisce in un orizzonte più ampio, quello dell'urbanistica, ossia quella disciplina che studia il territorio, lo progetta e lo pianifica. Duecento pagine che sono "Pro-cycling territory. Il contributo del ciclismo professionistico agli studi urbani e territoriali", che sono il riassunto di anni del lavoro e della ricerca portati avanti da Paolo Bozzuto, docente di “Progettazione urbanistica dello spazio aperto” al Politecnico di Milano (con il contributo di Andrea Di Franco, Arcangelo Farris e Marco Pinotti). Duecento pagine che sono un'ottima base di riflessione non solo per addetti ai lavori, ma soprattutto per chi la bici la vive in città e che vivendola in città non ne coglie l'utilità della dinamica sportiva. E per chi invece ama quest'ultima, ma non conosce le problematiche dell'utilizzo urbano del mezzo.
Pro-cycling territory è un lavoro che parte da un'epifania, quella "del racconto, implicito, dei territori attraversati dalla corsa, inquadrati e rappresentati da prospettive inedite e impraticabili per qualunque osservatore privo dei mezzi logistici di cui sono dotati i broadcaster che producono e trasmettono le telecronache delle grandi competizioni ciclistiche. Seguire la corsa era dunque un modo per provare a 'leggere', seppur con un approccio parziale, temporaneo e sequenziale, i territori coinvolti dalla competizione".
La stessa che José Garcia Cebrián, capo della pianificazione urbana di Siviglia, ebbe nel 1996, guardando la prime tre tappe dell'edizione di quell'anno del Tour de France, che partiva dall'Olanda. All'epoca nella città andalusa nemmeno l'un per cento degli spostamenti avvenivano su di una bicicletta, nel 2016 sono saliti al nove per cento. Il merito è dell'amministrazione e del lavoro sulla pianificazione cittadina. Cebrián che in questi anni ha cambiato la città, ha puntato su di un sistema di mobilità che favoriva i mezzi a pedali, costruendo una rete di piste e corsie ciclabili diffuse e raccordate tra loro che hanno fatto crescere il numero di biciclette circolanti da seimila a più di settantamila. In un'intervista di qualche anno fa alla tv spagnola, il capo della pianificazione urbana raccontava: "Aver visto dall'alto il sistema stradale olandese, ha fatto nascere in me la convinzione che per favorire la ciclabilità di una città l'unica cosa realmente utile fosse quella di creare una serie di infrastrutture che rendesse fattibile, rilassante e armonico il trasporto in bicicletta da due punti qualsiasi del tessuto urbano".
Un'epifania che in Pro-cycling territory diventa analisi scientifica, ragionamento e tentativo di "osservare la città e il territorio attraverso il filtro del ciclismo", un filtro "correttivo, capace di riportare l'attenzione degli esperti su contesti e ambiti oggi marginali, meno indagati, in un momento storico in cui, nel campo degli studi urbani e territoriali, così come nell'immaginario collettivo, la centralità della città appare maggiore di quanto mai lo sia stato in passato".
Questo volume ha la capacità di creare un punto di incontro, non solo accademico, tra la componente urbana e quella sportiva dell'andare in bicicletta, chiarisce soprattutto come non ci sia alcuna cesura tra un utilizzo cittadino e uno competitivo della bici. E questo perché non c'è alcuna differenza tra chi sul sellino si muove per andare al lavoro e chi invece corre la domenica immaginando di farlo su vette alpine o pirenaiche. I problemi dei primi sono gli stessi che colpiscono i secondi. Gli stessi che incontrano i professionisti in allenamento. E si chiamano strade e mobilità.
Per risolverli niente è però più inutile dell'improvvisazione. Serve uno studio approfondito, un ragionamento sulla città e sulle dinamiche di trasporto, serve soprattutto la volontà di superare le pratiche che attualmente in molti considerano normali, ossia l'utilizzo intensivo e sconsiderato dell'auto di proprietà.