La colpa di Froome è il suo corpo, non il salbutamolo
Il ciclismo, il doping e il perdono. Cosa c’entra il fisico scheletrico del capitano della Sky con l’incapacità di trattarlo come un qualsiasi altro ciclista
[Aggiornamento del 2 luglio 2018] Il ciclista britannico Chris Froome, quattro volte vincitore del Tour de France, non sarà squalificato. Il caso, montato per un livello anomalo di salbutamolo rilevato nel sangue dello sportivo durante la scorsa Vuelta, è stato archiviato. L'Union Cycliste Internationale (Uci) ha confermato "che il procedimento antidoping che ha coinvolto Christopher Froome è stato chiuso". "Grato e sollevato di poter finalmente mettermi alle spalle questo capitolo", ha scritto via Twitter il campione. "Sono stati 9 mesi emotivamente intensi. Grazie a tutti quelli che mi hanno sostenuto e che mi hanno creduto in me".
I quasi 2.000 microgrammi di salbutamolo trovati nelle urine di Chris Froome sono più di un numerino asteriscato su di un controllo antidoping, si sono trasformati in una specie di Stele di Rosetta del ciclismo, un'iscrizione in tre lingue che unisce il ciclismo che fu, quello mitico, a quello che è stato, quello chimico, e a quello che è ora. Tre linguaggi che sono concentrati in un uomo di 32 anni che ha vinto quattro Tour de France e (forse) una Vuelta, senza mai convincere i più della sua trasparenza.
Chris Froome è, suo malgrado, un caso limite che riesce a unire tutto il peggio dei pregiudizi: quelli di chi al ciclismo non crede più perché "sono tutti dopati", quelli di chi al ciclismo crede ancora perché "non è vero che sono tutti dopati", quelli di chi al ciclismo non sa se credere o meno, ma tant'è, basta la bicicletta.
E così, nonostante la sua positività al salbutamolo non sia ancora stata sanzionata – in quanto questa sostanza, ossia il Ventolin, non rientra nella prima classe di sostanze dopanti e per questo non scatta la sospensione provvisoria – e sia ancora in attesa la commissione giudicante degli incartamenti sulle terapie utilizzare dal corridore per curare l'asma che gli è stata diagnosticato all'età di dieci anni, per una gran parte degli appassionati è già colpevole. E lo sarà comunque andrà a finire il processo. Anche se il salbutamolo non trasforma un ronzino in un purosangue, anche se gli effetti anabolizzanti in questa sostanza si hanno solamente per un uso continuato (mesi) e non sporadico (una tappa), anche se gli ultimi studi hanno dimostrato che non è coprente (ossia non ha la capacità di coprire altre sostanze illecite). Froome sarà il “Dopato”, il nuovo Armstrong, le sue vittorie non potranno essere mai linde, mai pulite, ci sarà sempre un dubbio, una macchia enorme sul suo curriculum.
Il capitano della Sky non è stato il primo ciclista a essere pizzicato all'antidoping. Con ogni probabilità, ahinoi, non sarà l'ultimo. Eppure Froome segna, suo malgrado, un discrimine tra un'epoca e un'altra. Quella che ruota attorno al perdono.
Da quando Coppi e Bartali scherzavano al Musichiere sulle bombe, ossia borracce di intrugli mai ben specificati allungati con la simpamina, un'anfetamina, ne è passato di tempo e diversi sono stati i campioni finiti al centro di storie non edificanti di doping.
C'è stato Jacques Anquetil che si rifiutò di fare i test antidoping, c'è stato Eddy Merckx cacciato dal Giro d'Italia (in modo non del tutto chiaro), ci furono le pilloline di Gastone Nencini, Roger Riviére, Charly Gaul, la morte di Tom Simpson, le cacciate a grappoli degli anni Novanta e quelle degli anni Duemila. Storie di campioni e gregari, di divi e uomini beccati, poi squalificati, infine ritornati. Per loro, per tutti loro, la giusta occasione di una seconda possibilità, la facoltà della redenzione.
Erano altri tempi, sicuramente, erano altri personaggi, nessun dubbio, era un altro ciclismo, senz'altro. I tifosi però sono sempre riusciti a perdonarli, a far spallucce, a capire che lo sport è cosa stupenda, ma gli uomini che lo praticano sono uomini e per questo fallibili.
Poi arrivò Lance Armstrong e il doping divenne infamità. Perché il texano aveva un passato incredibile, quello della rinascita, del cancro battuto, del ritorno alla vita, alle corse, alla vittoria. Una vicenda della quale non ci si poteva non innamorare. Divenne il bluff più grande della storia del ciclismo. E lo scontro con la realtà della truffa del doping scientifico fu un pugno nello stomaco che fece male, che smaliziò molti a tal punto da gettarli in un mondo sospetti.
Ma può un corridore solo incrinare un rapporto intimo come quello che sussiste, o forse sussisteva, tra ciclismo e tifosi?
No. O almeno non è stato Armstrong a incrinarlo, ma quello che il texano ha rappresentato.
Chris Froome è arrivato dopo Armstrong e di Armstrong rappresenta l'evoluzione. Non tanto chimica, al più tecnica. E' l'esasperazione di quello che l'americano ha rappresentato: il trionfo del ciclista ragioniere su quello corsaro, il trionfo della logica dell'obbiettivo su quella dell'epica, dell'efficienza biotecnologica rispetto al coraggio e alla resistenza alla fatica.
Chris Froome è arrivato dopo Armstrong e più di Armstrong ha rappresentato il distaccamento del ciclista professionista da quello di tutti i giorni, tra il ciclismo delle grandi corse e il popolo del ciclismo.
In questa disciplina, più che in altre, si è interposta una cesura tra il modello fisico del campione e quello dell'appassionato. E' una cesura totale, che scardina il principio secondo il quale, come evidenziato dall'antropologa britannica Mary Douglas, lo sportivo rappresenta "la massima espressione dell'armonia corporea applicata a uno sport, un traguardo estetico al quale ogni appassionato punta". I grandi campioni della storia del ciclismo sono sempre stati caratterizzati dalla magrezza, ma era una magrezza muscolare, un'assenza di massa grassa, ma in un modo o nell'altro armoniosa. Fausto Coppi era secco, aveva una cassa toracica smisurata, ma aveva una sua armonia, soprattutto quando andava in bicicletta. Così i grandi scalatori della storia, piccoli, leggeri, magrissimi, ma non scheletrici.
Con Froome ciò decade. L'inglese è caratterizzato da una magrezza quasi malata, inconcepibile ai più. Il suo fisico è fatto di pelle che fa intravedere le ossa, i suoi muscoli sono inesistenti, la percentuale di massa grassa la minima che la storia della bicicletta ha mai visto.
Il team Sky in questi anni ha portato avanti quella lezione che da Biagio Cavanna ai giorni d'oggi, passando per Francesco Conconi, ha studiato il fisico dell'atleta per renderlo il più possibile efficiente: più forza in meno peso, il mantra. Una ricerca della leggerezza diventata estrema prima con Bradley Wiggins e poi, in maniera ancor più marcata, in Chris Froome.
Il corpo di Froome è estremismo corporale, un distacco "malato" rispetto a ciò che è normalmente considerato sano, normale. E il corpo di Froome altro non è che la dimensione fisica di un estremismo ciclistico, quello dell'estrema agilità in salita, quella che si palesa a ogni corsa nella cosiddetta "frullata", ossia il vorticoso mulinare di pedali a una frequenza di pedalate impossibile con un occhio sul cardiofrequenzimetro e conteggio matematico dei secondi nei quali il cuore supera la soglia anaerobica. E' il trionfo della tecnica ciclistica applicata alle gambe, qualcosa di impossibile da riprodurre se non dopo anni di estenuanti allenamenti.
E in questo sta sia la grandezza dell'inglese sia il suo limite, che altro non è che quello dell'incomunicabilità. Non c'è vicinanza tra Froome e il pubblico, il suo corpo e il suo modo di andare in bicicletta sono incompatibili con quello provato o visto sino a qui dagli appassionati. E se manca il substrato comune, non può esserci vicinanza di sentimenti tra un campione e gli amanti dello sport. Froome rappresenta quello che Nietzsche chiamava superuomo, ma nella accezione negativa attribuitagli da parte degli studiosi di filosofia.
Froome è un corridore "costruito" atleticamente per vincere, per sbaragliare la concorrenza. Ma che è riuscito nel tempo a metterci del suo, a creare scompiglio attaccando dove nessuno se lo aspettava, in discesa dai Pirenei, in pianura nel vento di Montpellier.
Eppure, nemmeno nelle imprese è riuscito a cambiare il pregiudizio su di sé.
Forse il ciclismo voleva vedere uomini, non alieni, forse il ciclismo voleva ancora divertirsi e sognare, non essere modello d'efficienza.