Alla Tro-Bro Leon Laporte se ne frega delle burle del vento e di Gaudin

Il corridore francese che viene dalla Costa Azzurra ma ama le Fiandre conquista la corsa bretone dei ribinoù. Alle sue spalle finisce il vincitore dello scorso anno, un attore mancato degno dell'ex capitano Voeckler

Giovanni Battistuzzi

Il vento dell'Atlantico è un buontempone che gioca con il sole e con le nuvole. Accelera all'improvviso, rende il cielo un'autostrada per nubi veloci e gonfie di acqua da espellere. Poi s'arresta, lascia a tutti la speranza della quiete e quando questa sembra essere arrivata, ecco che ritorna, ecco nuove folate e nuova pioggia. Secondo una vecchia leggenda bretone tutto questo accade per mantenere verde il verde, per non far dimenticare all'Oceano gli occhi del suo grande amore. Secondo Bernard Hinault tutto ciò accade per selezionare i turisti, per non rendere la Bretagna un luogo invivibile.

 

Il vento dell'Atlantico è un buontempone che oggi ha giocato anche con i corridori. Sole, ma nemmeno troppo, poi pioggia, ma a secchiate, poi qualche raggio a illuminare l'arrivo della Tro-Bro Leon, a rischiarare il volto di Christophe Laporte, le sue braccia alzate da vincitore, il suo volto leopardato di fango. Già perché negli oltre trenta chilometri di sterrato, o meglio di ribinoù (che altro non sarebbe che un tratto di strada senza asfalto), di fango per terra i corridori ne hanno trovato abbastanza da non volerlo vedere per un po'. Anche per chi per questo genere di corse ne ha un rispetto che rasenta l'amore. Laporte è uno di questi, uno che alle spiagge della Costa azzurra, al mare che si vedeva in lontananza dalla sua casa a La Seyne-sur-Mer, preferiva gli scorci di Fiandra, le pietre che si perdono nei boschi del Belgio, il ciclismo scomodo e aguzzo, a quello tranquillo di tutti i giorni. E lo preferiva a tal punto da mettersi così tanta pressione addosso da non riuscire a correre come si deve, anzi, a volte a non riuscire a correre fino in fondo.

 

Quel senso di infinita reverenza per il ciclismo delle pietre, oggi Laporte lo ha finalmente lasciato in valigia, non lo ha indossato sui ribinoù del Tro-Bro Leon. Anzi. Sugli sterrati bretoni il francese si cucito addosso un vestito perfetto, fatto di abilità e forza, di tenacia e costanza. Ha guidato la bici come sa fare altrove, con eleganza, ma, contrariamente a quanto avviene altrove, con la serenità di chi sa essere veloce, ma non per questo aspetta, azzarda perché sa di avere in mano una seconda cartuccia, quella buona per stendere chiunque.

 


La storia della Tro-Bro Leon

 

Damien Gaudin assomiglia più al vento dell'Atlantico che a Christophe Laporte. E' uno a cui piace scherzare, a tal punto da farlo in corsa e a favor di telecamera. A dieci chilometri dall'arrivo quando il gruppetto dei migliori stava rincorrendo il norvegese Rasmus Tiller, era costantemente in ultima posizione, con l'andare di chi faceva una fatica boia a pedalare. Sotto la pioggia si era staccato, cinque-dieci metri al massimo, aveva ripreso terreno sbuffando, sembrava al gancio. Poi Tiller, all'uscita di una curva, cade in uno scherzo del vento, si trova disteso a terra, capisce che le sue possibilità di vittoria sono evaporate; Laporte scatta, gli altri inseguono, Gaudin piega il collo, scuote la testa, ma non si stacca. Tutti pensano: "Questo molla a breve, non è un pericolo". Tutti dimenticano però che Gaudin per tre anni è stato alla scuola di Thomas Voeckler e lì ha imparato l'arte del baro. E così Gaudin, quando si è stufato di aspettare, attacca, recupera, continua a sbuffare e a scuotere la testa, vuole conquistare quello che aveva già conquistato un anno fa, quella che era diventata "la mia Roubaix". Sull'ultimo ribinoù si avvicina a Laporte, ma lo sfiora appena, non lo riesce a riprendere. Il suo rimane uno sbuffo incompiuto, un sorriso a metà.

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