Andrew Hampsten (per gentile concessione del Museo del ciclismo del Ghisallo)

Lassù sul Gavia la neve

Giovanni Battistuzzi

La tappa incredibile del Giro d'Italia 1988, la fuga di van der Velde, il ciclismo degli Offlaga Disco Pax, il successo di Breukink, il trionfo di Hampsten e il ricordo di Luciana Rota. L'americano racconta la bufera del Gavia al Museo del ciclismo del Ghisallo

Quel giorno la primavera si era presa una pausa e tutto era scoperta e apparizione. Fossero stati bambini sarebbe stata una festa, avrebbero fatto a palate di neve per un pomeriggio intero tanta ce ne era e tanto il cielo ne riforniva. Ma bambini non erano più da un pezzo e di tempo per giocare non ce ne era più, che erano al Giro d'Italia mica al parco giochi, che le montagne erano una faticaccia, mica divertimento come un tempo. Sci slittini e camini accesi erano istantanee di un tempo passato, ora c’erano soltanto le biciclette e un uomo (Vincenzo Torriani) che diceva “si va avanti” e non sentiva ragioni.

 

Perché quel giorno era il 5 giugno del 1988 e c'era quel dannato Passo Gavia da scalare, quel nastro d'asfalto che a un certo punto diventava di ghiaia e che porta verso il cielo, verso i 2.621 metri del crinale che separa la val di Gavia e la val Camonica.

 

Prima che quella strada iniziasse c’era un uomo in maglia Rosa con un soprannome che, sebbene diminutivo, era pesante come l’intera storia del ciclismo, Coppino. Franco Chioccioli a quel Giro d’Italia pedalava che era un piacere guardarlo e su quella montagnona voleva giustificare il primato che portava sulla pelle. Al suo fianco un americano che si sentiva capace di tutto, perché capace di tutto era. Andrew Hampsten la gamba se la sentiva che funzionava benone, ché al freddo c’era abituato e non aveva paura di nulla. Ma prima di loro, avanti e in fuga, c’era un uomo che aveva ancor meno timore e che del freddo se ne faceva un baffo, uno che la salita non è che l’amasse, ma tant’era quando c’era da scappare dal gruppo per prendere punti per quella maglia Ciclamino che aveva addosso e non voleva saperne di mollare.

 

Prima che quella strada iniziasse era stato un Giro d’Italia bello, ma non più di altri. Quando quella strada iniziò a scorrere sotto le ruote dei corridori, si iniziò a capire che un Giro così non lo si vedeva da tempo. Quando quella strada finì si era già passati dal ciclismo a qualcosa di altro, forse leggenda, sicuramente storia. Perché se ancora oggi si dice “te la ricordi quella volta sul Gavia”, la mente va a quel 5 giugno del 1988, alle ruote che scivolano nel fango, alla neve che tutto avvolge in cima, in quel fioccare incessante di cristalli di neve, a Johan van der Velde che si arrampica in maglietta, a Andrew Hampsten che stravolge il Giro e lo vince, pur perdendo la tappa per qualche manciata di secondi, a Franco Chioccioli che batte i denti e con il viso stravolto maledice tutto e tutti, soprattutto quel freddo cane, a Erik Breukink che taglia il traguardo a braccia alzate e che poi quasi non riesce a scendere di bicicletta ghiacciato com’è.

 

 

Una storia che trent’anni dopo non si dimentica, perché è impossibile dimenticare l’incredibile, la follia crudele che ogni tanto si impossessa del ciclismo. Non la dimenticano i tifosi, non lo fanno i protagonisti di quella pazzia. Non la dimenticarono gli Offlaga Disco Pax che sul finale di Tulipani impreziosirono l'impresa con parole perfette: "Ci arrivò da stoccafisso, a Bormio, l'olandese Van der Velde. Quasi morto e con quarantasette minuti di ritardo. Ma di quel traguardo si ricordano certo più di lui che dell'altro tulipano che giunse primo in quella tappa disgraziata o dell'americano che vinse poi il Giro d'Italia la cui cima Coppi era un po' troppo congelata. Quel metro di neve sulle Lepontine Retiche, affrontato con una bicicletta al posto della slitta, vale quanto l'alpinismo estremo senza bombole d'ossigeno tra le inviolate vette del Pamir."

 

 

E sentirla raccontare da Andrew Hampsten, il cui azzardo si colorò di Rosa a Bormio, è una di quelle cose che non capitano tutti i giorni. Anzi non capita quasi mai. C’è però il Ghisallo, il suo museo, e quell’americano un po’ folle che nel triangolo lariano si affaccia venerdì 6 luglio e che dalle 21 inizierà a raccontare quella storia, assieme a Pier Bergonzi, vicedirettore della Gazzetta dello sport, questa volta in prima persona.

 

Perché ci sono storie che possiamo ricordare e farlo per sempre, ma vuoi mettere viverle. Perché ci sono storie che a vederle mentre scorrono è tanta roba, ma troversele lì, mentre accadono tutt’attorno a te è ancora meglio. E allora parola ai ricordi, quelli che Luciana Rota, che è giornalista appassionata, scrittrice e un sacco di altro cose, ha affidato a Girodiruota:

 

Papaletto (Franco Rota, nda) mi dice alla partenza di Bormio: prendi la mazzetta dei giornali e sali in auto. Si parte. Inizio a fare la rassegna stampa, leggo Torre, Minoliti, Gregori, Josti, Neri... si parte e piove.

 

Papà mi dice: guarda che roba questo ciclismo moderno qui piove, facile che sul Gavia ci sia neve e partono tutti come per andare al mare senza nemmeno i manicotti..

 

Tutti tranne qualcuno. Fra questi l'americanino. Andy Hampsten.

 

Arriviamo quasi al bivio del Gavia e radiocorsa va ascoltata come per un rosario. In silenzio sacro. Dice che Torriani ha deciso di fermare le auto della carovana, passano solo le auto stampa e le ammiraglie. Tutti gli altri dovranno tagliare e andare direttamente all'arrivo. Decisione presa. La corsa prosegue. In Tv lo annunciano. Lo scoprirò dal racconto di mia mamma che segue la corsa a casa. Preoccupata che quei due...

 

Al bivio ci intercetta come in un posto di blocco un indemoniato Gianni Motta. Scende dal suo maggiolone. Raggiunge la nostra Opel Kadett verdina metallizzata (comprata da Magni a buon mercato dell'usato) e dice: Franco, tua figlia va con mia moglie all'arrivo, dall'autostrada. Tu ed io andiamo sul Gavia. Guido io!

 

Ci metto un secondo a capire: mi fiondo sul sedile posteriore senza scendere dall'auto. Io da qui non mi muovo, sua moglie ci va da sola all'arrivo. Urlo a mio padre senza rispetto. Lui sorride e si accende una Malboro. Lo sa già senza che glielo dica. E ne va fiero mi sa. Partiamo.

 

I tornanti me li ricordo come le vene grosse delle braccia di un campione. Ricordo anche il freddo della tempesta perché quel diavolo di Motta non tiene mai su il finestrino per vedere bene la strada e intercettare gente sul percorso. E fa bene. Ci sono tifosi (incredibile sotto la neve!) che lo riconoscono al volante e lo incitano. Lui ha gli occhi spiritati come se fosse in gara ad arrampicare anche lui in mezzo a quella tempesta.

 

Arriviamo al Passo. Ci beviamo un grappino perché abbiamo freddo e siamo davanti alla corsa di almeno mezzora. Passano poi alla spicciolata. Un calvario lento di ghiaccio. Uno alla volta. Tiro fuori i giornali. Anche il tuo. Anche il tuo pezzo della rassegna finisce sulla pancia di un corridore del Giro che non riconosco perché è impossibile riconoscere le facce le maglie le gambe di quegli eroi congelati. Motta vede Hampsten. Lo riconosce con un guizzo e lo incita. Sembra che i due si fossero messi daccordo. Lo scopriro' 30 anni dopo che era stato proprio così. Perché Andy me lo ha detto: è stato lui a dirmi di attaccare in quella tappa...

 

So che piango. Piango come un cavallo fino alla sala stampa quando vedo Chioccioli, Coppino, tutto avvolto in una coperta di lana di quelle della Grande Guerra, di montagna, che è rigido e piegato su se stesso. Ha perso la maglia, il Giro e sembra assiderato più che disperato.

 

Quella tappa, quell'esperienza segna il mio ingresso definitivo e appassionato nel mondo del ciclismo. Da lì non scapperò più. Perché per quanto possa essere brutto in certi momenti è sempre meglio di tutto il resto, come diceva Franco, il tuo amico Franco. Franco Rota. E aveva ragione. Il ghiaccio è rotto da 30 anni e con il ciclismo di mio padre e il tuo e il mio, quello di Andy e di Motta e di tutti quelli che superano fatiche impossibili, mi sono sempre scaldata il cuore.

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