Pantani, 20 anni dopo
Per Marco Pantani il tempo della sconfitta è un refolo di vento
Il Tour de France nel 1998 partiva da Dublino con un cronoprologo. Chris Boardman lo conquistò volando, il Pirata lo affrontò piano, con la nostalgia nel cuore. Ma non tutto ciò che sembra perso nel ciclismo è davvero perduto
Cinque chilometri e seicento metri sono un soffio di vento. Specialmente se li si percorrono a 55,152 chlometri all'ora di media come fece quel giorno Chris Boardman, inglese da velodromi, uomo nato per abbattere il tempo. Aveva iniziato in pista ed era un fulmine. Aveva continuato in strada e la propensione alla velocità non era cambiata. Sotto i dieci chilometri era imbattibile, se la distanza aumentava invece qualche speranza c'era, anche più di una, perché la perfezione "è un lampo che scompare in pochi battiti di ciglia", scrisse Samuel Taylor Coleridge. Coleridge era del Devon, sud dell'Inghilterra e parlava d'amore, dell'unico momento perfetto che si può trovare in terra, il momento dell'innamoramento. Boardman era di Hoylake, Merseyside, due passi da Liverpool, e l'amore sapeva benissimo cosa fosse. Lo conosceva ogni volta che correva veloce in bicicletta, "più sento l'aria fare attrito sulla faccia, più mi ricordo perché voglio bene a questo sport". Lo provava anche e forse soprattutto per sua moglie Sally Anne. "Voglio dedicare questo successo a mia moglie perché senza di lei non potrei fare questa professione", ha detto con la maglia gialla addosso, la prima del Tour de France 1998, quella ottenuta grazie alla vittoria del cronoprologo di Dublino. Da lì partiva la Grande Boucle quell'anno. Da lì iniziavano quelle tre settimane che divennero indimenticabili.
Cinque chilometri e seicento metri sono un supplizio. Specialmente quando le gambe sembrano due tronchi di pino e la strada, dritta e pianeggiante, sembra un muro lastricato di asfalto fresco. Specialmente quando il cronometro segna 48 secondi di ritardo dall'inglese e 43 dal favorito per la vittoria finale, Jan Ullrich. Marco Pantani all'arrivo aveva guardato il tabellone dei tempi, aveva scosso il capo, blaterato qualcosa, sbuffato, mandato a quel paese se stesso. Poi era sceso di bici e accennato un mezzo sorriso. Ai microfoni aveva detto che era andato male, certo, ma che "era da un mese che non correvo, non potevo pretendere granché e poi dieci secondi in più o in meno non fanno una gran differenza nel mio Tour". Ché tanto era altro il suo terreno. "Non è il distacco di oggi che conta e non erano questi i miei pensieri quando sono partito". Volavano più in giù, oltre la Manica, a est di Pirenei e Alpi, a cui forse aveva pensato e forse pensava ancora, ma non quel giorno. Volavano nella sua Romagna ed erano colmi di assenza, quella lasciata da Luciano Pezzi, l'uomo che in lui aveva creduto quando sembrava un ex corridore, con una gamba maciullata addosso a una macchina nella discesa del Santuario di Superga alla Milano-Torino del 1995. Gli aveva costruito una squadra attorno. Era riuscito appena a vederlo trionfare al Giro d'Italia. Se ne era andato il 26 giugno e se Marco era andato al Tour era un po' anche per lui. Ce l'avrebbe messa tutta per raggiungere Parigi in maglia gialla. E lo avrebbe fatto nonostante i 48 secondi sul groppone dal cronoprologo, nonostante le due lunghe cronometro in programma, nonostante un percorso che di montagne ne aveva ma non abbastanza per pareggiare i conti con gli specialisti delle cronometro. Poco male si era detto, il ciclismo è così, da sempre, dove non arrivano i chilometri in salita arriva la fantasia.
E di fantasia ne serviva per non vedere quelle nubi nere che dal confine con il Belgio stavano per raggiungere i corridori. Nubi che erano una mazzata, che erano una parolina che faceva spavento, doping, che avevano le sembianze di un portabagli di un'auto, quella del medico della Festina (squadra professionistica francese) piena un po' di tutto quello che era illecito.
Sembrava l'inizio di un thriller e forse lo era davvero.