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Roubaix è giallo e redenzione. Sulle pietre del Tour vince Degenkolb

Giovanni Battistuzzi

La maglia gialla, Greg Van Avermaet attacca con il tedesco e Lampaert sul settore di Champin-en-Pévèle. Froome, Nibali, Dumoulin e Quintana escono assieme dalle pietre. Bardet, Landa e Uran invece perdono secondi

La versione leggera di un piatto pesante può risultare comunque indigesta. Anchè perché quando questo è a base di pietre bisogna avere stomaco preparato e una certa attitudine al riempirsi la pancia per non finire collassati a bordo tavola. E quella di Roubaix è notoriamente molto ricca e molto scomoda. Questa volta illuminata di redenzione e di giallo, quella, rispettivamente, di John Degenkolb, che una macchina rischiava di fargli finire la carriera, e di Greg Van Avermaet.

 

Non si parte dai sobborghi di Parigi, ma da Arras, molto più a nord. Non c’è la Foresta di Aremberg a fare da primo grado di giudizio, non c’è il Carrefour de l’Arbre a fare da cassazione, ma tant’è: rimane il secondo grado di giudizio della Parigi-Roubaix, Mons-en-Pévèle, e mille altri blocchi di pavé che agitano, scuotono, sconquassano e tutta quella polvere che quando si alza e copre tutto sembra di stare in Val Padana. E in quella nebbia terrestre che dalle ruote si alza in cielo e segue i corridori come una qualsiasi nuvola fantozziana, scaricando loro addosso tutta l’incertezza dell’affidarsi alla sorte.

 

La nona tappa del Tour de France è un racconto a sé, che nulla ha a che fare con i racconti e i ricordi primaverili, con quell’Inferno di pietre tanto amate. E’ un altro mondo, non è un romanzo, è una puntata di una fiction in ventun puntate che per metà è uno spin-off e per metà un remake della versione originale. Perché ci sono i protagonisti di aprile, cambiano però gran parte dei figuranti, uomini che solitamente al lido di Roubaix ne preferisce altri, ma che ora al lido di Roubaix sono costretti ad attraccare loro malgrado. Ecco allora che su questi scenari consueti va in scena uno spettacolo inconsueto, dove tutto è confuso e le biciclette faticano, sobbalzano, spesso si ribaltano. Dove le ruote si storgono, i palmer si bucano e i corridori si perdono tra asfalto e pietre. Richie Porte l’asfalto lo assaggia tra i primi e sull’asfalto ci lascia una clavicola e qualsiasi ambizione di vittoria. Mikel Landa dall’asfalto invece riesce a rialzarsi ma dell’asfalto ne porta i segni sul corpo e sul cronometro. Rigoberto Uran e Romain Bardet invece tra asfalto e pietre ci lasciano parte della bicicletta, e si ritrovano a portare il peso di secondi pesanti come pugni in faccia.

 

Ruote, quelle del gruppo, che solcavano il tracciato esplorato ancora una volta da un uomo della Direct Energie, squadra apripista della prima settimana del Tour de France, avanguardisti per elezione, per destino, per necessità. E quando a 19,4 chilometri dall’arrivo Gaudin e Janse Van Rensburg, i coraggiosi più coraggiosi dei fuggitivi della mattina, si stringono la mano mentre ciò che rimaneva del gruppo li ingoiava ecco che Sylvain Chavanel, altro uomo della formazione bretone, tentava l’assolo. Nulla da fare, vittima anche lui dell’ingordigia di capitani e specialisti.

 

Va meglio a Greg Van Avermaet, John Degenkolb e Yves Lampaert che sul settore di Champin-en-Pévèle scelgono il momento giusto per salutare chi sul pavé si è limitato a galleggiare e non ha voluto o non è riuscito a solcarlo.

 

Froome, Dumoulin, Quintana, Valverde e Nibali fanno pacchetto comune, cercano di resistere alle vibrazioni, riescono a uscire con tutte le ossa a posto. E già questo è cosa ottima. Jungles e Mollema invece qualcosa rosicchiano quando non c’era più nulla da rischiare, sfruttando l’indomito animo, ma oggi battuto, di Peter Sagan, quinto al traguardo, battuto anche da Philippe Gilbert nello sprint di consolazione e parecchio dietro dai primi tre.

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