Sagan, Gilbert e la scorza dura dei ciclisti
Il campione del mondo nonostante sia caduto sulle rocce prenderà il via della 18a tappa del Tour de France. Martedì il belga aveva pedalato per 60 km con una rotula rotta
Arrivare a Parigi dopo aver pedalato tutto un Tour de France "è uno di quei ricordi che ti porti addosso per una vita perché è la certificazione della propria follia", raccontò all'Auto Charles Dumont al termine della Grande Boucle del 1912. Dumont è uno che non ha mai vinto niente nella sua carriera ciclistica, uno dei tanti che sulla bicicletta ha faticato senza arrivare alla notorietà. Ma due Tour li ha finiti e da isolato, cioè senza una squadra che lo pagasse. Era solo la passione a spingerlo e, forse, l'idea che in sella poteva scansare un po' meglio della fame che c'era ovunque quegli anni.
Arrivare a Parigi dopo aver pedalato tutto un Tour de France è qualcosa che vale la pena fare ancora oggi. E questo nonostante si corra non più per fame ma per fama. E questo nonostante i soldi ai corridori non manchino e non si è Charles Dumont, ossia un signor nessuno, ma Peter Sagan o Philippe Gilbert. Sarà che voglia di concludere qualcosa che si è iniziato è la stessa, sarà che la magnificenza della Grande Boucle è ancora maggiore.
Sarà tutto questo. Ma forse c'è pure altro. Lo dimostra Philippe Gilbert che risale dal burrone nel quale era precipitato dopo aver sbagliato una curva nella discesa del Col de Portet-d'Aspet e si fa sessanta chilometri con una rotula rotta.
When you have a broken knee cap and decide to keep going for another 60km pic.twitter.com/cGoidtQH3w
— PHILIPPE GILBERT (@PhilippeGilbert) 25 luglio 2018
Lo dimostra Peter Sagan che si rialza dopo essere finito sulle rocce, conclude la tappa e non prende neppure in considerazione l'idea di ritirarsi. E questo altro è passione, amore, capacità di soffrire, ed è sofferenza cane quando si pedala stretti tra botte e ferite, desiderio di fare tutto il possibile e anche di più del possibile pur di non scendere dalla bicicletta.
Foto LaPresse
La scienza dice che pedalare aumenta la produzione di endorfine, che altro non sono, in poche parole, che sostanze, neurotrasmettitori, che il cervello produce per coordinare e controllare le attività nervose superiori e che procurano uno stato di benessere. L'esperienza dice che una volta saliti in sella non si vuole più scendere e si trova qualsiasi "scusa", qualsiasi occasione per rimettersi sui pedali e tornare a correre. Vale per gli appassionati, vale, anche se qualcuno prova a sostenere il contrario, anche per i professionisti. Vale pure per Sagan che in bicicletta fatica, ma che vuole portare la sua maglia verde a Parigi e anche se quella maglia non la indossasse avrebbe comunque cercato di finire la Grande Boucle. Perché così è sempre successo. E per tutti. Perché il ciclismo sarà anche sudore (e tanto), sarà anche fatica (e troppa), sarà anche freddo e caldo subito, sarà anche uno sport di merda, a dirla come giustamente disse Imere Malatesta a un suo ragazzo, ma ancora non ci si è stancati di pedalare.
E' la scorza dura dei ciclisti: quella volontà di mettersi alla prova continuamente, infliggersi fatiche immani e gioirne e attenderne altre ancora più infami, quella tendenza a sognare cime che sfiorano il cielo, a passare ore a scalare migliaia di metri di dislivello per il solo gusto di dire "ce l'ho fatta". Vale per gli amatori, vale per i professionisti, o almeno per molti di loro. Gente che sì fa questo per mestiere, ma che sa che vale la pena farlo. Perché "sarà duro, ma non c'è di meglio al mondo", parola di Gino Bartali.