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Evviva Ullrich

Giovanni Battistuzzi

L'insensatezza di accusare il ciclismo degli anni Novanta e Duemila per i problemi dell'ex corridore tedesco

Avesse avuto la determinazione e la testa del campione chissà cosa avrebbe potuto fare. E' questo il giudizio che Jan Ullrich si porta addosso se non da sempre, almeno dal 2000. Da quando sulla sua strada incrociò Lance Armstrong e ne divenne l'antagonista, il battuto, il secondo. Tre volte di fila dietro l'americano sul podio del Tour de France, una volta appena giù dal podio, un'altra, l'ultima, terzo. Prima di allora una Grande Boucle dominata nel 1997, un secondo posto nel 1996 dietro al suo capitano Bjarne Riis e un altro secondo posto, ma quella volta dietro Marco Pantani, dopo avere subìto suo malgrado un'impresa storica, un volo alpino su e giù dal Col du Galibier e su ancora verso Les deux Alpes. Un secondo posto che non passò mai come un fallimento, perché troppo eccezionale quello che fece il Pirata in quelle tre settimane.

 

"Il suo motore era eccezionale, il suo fisico era eccezionale, ma se questo non è diretto da una testa altrettanto fenomenale due gambe e due polmoni non vanno da nessuna parte", disse l'ex corridore Wilfried David parlando di Ullrich e forse di se stesso. Perché il belga come il tedesco aveva un talento eccezionale che si è perso per strada. Forse ancor più di quello dell'ex capitano della Telekom. Troppo cibo e troppa birra lontano dalle corse, dicevano. Troppa vita e troppe feste, rincaravano. E quel problema con la bilancia a ogni ripartenza invernale. Chili in più che tiravano le magliette e tempo perso a smaltirli. E così il Tour si trasformava in un inseguimento alla forma migliore. Quando arrivava il tedesco era capace di battere chiunque, ma quando arrivava era sempre troppo tardi. E nemmeno la soddisfazione di essere simpatico, di essere il perdente amato dal pubblico come successe a Raymond Poulidor, una carriera prima alle spalle di Jacques Anquetil e poi a Felice Gimondi ed Eddy Merckx. Perché Poulidor era il più forte dei battuti, uno che si impegnava allo spasimo e finiva comunque dietro, mentre Ullrich no, lui poteva davvero essere il migliore, ma non rinunciava a nulla per esserlo. E poi era tedesco, mica francese, le cose le diceva senza filtro e la vita la portava avanti così, come gli veniva.

 

A portarla avanti così, come gli veniva, Ullrich ha continuato anche dopo la fine della carriera ciclistica. Qualche problema con l'alcol, la patente ritirata per guida in stato di ebbrezza, le dichiarazioni che non piacciono, come quella proprio sul grande rivale, Lance Armstrong: "Fosse per me, restituirei ad Armstrong le sue vittorie al Tour. Hanno fatto lo stesso con Bjarne Riis per l'edizione del '96 e non è di aiuto a nessuno un albo d'oro con nomi cancellati". O quella sull'Operacion Puerto, quella delle provette sequestrate al professor Eufemiano Fuentes: "A mio avviso non si può chiamare una truffa. E’ così quando acquisisci sugli altri un vantaggio sleale, ma non era quello il caso".

 

Perché Ullrich non si assolveva, ma nemmeno si incriminava, perché avrebbe significato incriminare il ciclismo, "e il ciclismo no, non va incriminato. Nella mia epoca era strano, certamente chimico, ma non meno sincero di quello che è sempre stato. Lo sport non è il regno dei santi anche se molto spesso pensiamo che lo sia".

 

Ullrich ha sbagliato durante la sua carriera sportiva e ha continuato dopo. Qualche giorno fa è stato arrestato a Maiorca, dove vive. L'accusa è di violazione di domicilio. I fatti, almeno per come sono stati ricostruiti, parlano di Ullrich che a causa di qualche schiamazzo di troppo va nel giardino del vicino, chiede di finirla e poi, chissà come, parte una mezza rissa. Oggi alla Bild parla della sua situazione, quella di un uomo ferito dalla vita perché "la separazione da mia moglie Sara e di conseguenza dai miei figli, mi ha gettato nello sconforto più profondo. I miei ragazzi non li vedo da Natale e fatico anche a parlarci. Questa situazione estrema, mi ha portato a fare e prendere cose di cui mi pento molto", che ha avuto e ha ancora problemi di alcol e droghe, ma che prova a ricostruirsi un'esistenza "per amore dei miei figli, sto facendo terapia".

 

Ullrich è vittima di se stesso, dei suoi ricordi, forse dei suoi rimorsi. Forse perché non è riuscito a fare quello che tutti pensavano potesse fare, forse perché essere il più forte è uno di quei pesi che se non hai spalle larghe è difficile portare, forse solamente perché non sempre un grande atleta è per forza un grande uomo. Ma in tutto questo non ha senso accusare il ciclismo di quegli anni – quelli difficili e per nulla positivi del ricorso al doping sistematico – di aver rovinato un'intera generazione di uomini. La bici non condanna, la bici salva. Lo raccontò un altro uomo disperato che con la vita non andò mai in pari. José Maria Jimenez, per tutti El Chava (il selvaggio). Lo raccontò nel 2002, un anno prima della morte, poco tempo dopo il ricovero in una clinica che combatteva la depressione: "Credo che tutto sommato mi sia andata bene. Senza la bicicletta la mia vita sarebbe stata peggiore. Forse non avrei neppure visto il nuovo secolo. Si sono scritte tante cose, che il ciclismo danneggia i suoi atleti, che li rende schiavi. Sono cavolate. Quando pedalo sono libero, felice, in sintonia con tutto. Il problema è quando scendo dalla bicicletta e scopro che c'è un mondo giù dal sellino".

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