La nuova anima della Vuelta
La corsa a tappe spagnola non è più una gara ibrida, e insidia il Giro d'Italia
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Era stata aperitivo ciclistico di una stagione, si era trasformata in ultima occasione per rimediare agli anni storti. In mezzo un cambio di data nel calendario internazionale nel 1995: da aprile a fine agosto, da antipasto a digestivo. La Vuelta a España non valeva molto di più. Terza grande corsa a tappe per nascita e per prestigio. Un’accozzaglia di salite e di percorsi che non avevano né la bellezza di quelli del Giro d’Italia, né il fascino di quelli del Tour de France.
Il grande giornalista sportivo francese Pierre Chany la chiamò “La Grande cyclosportive”, una corsa un po’ così, magari appassionante, in ogni caso di livello inferiore. Jacques Anquetil la definì l’Hybride, l’ibrida, né carne né pesce. La corse la prima volta nel 1962, che ormai aveva vinto tutto e solo per conquistare l’unica gara a tappe che gli mancava. Gli andò male. La vinse l’anno dopo e non ci tornò più.
Cronache che sembrano venire da un secolo fa. Perché ora la Vuelta è cambiata, ha una sua anima fatta di salite irte e verticali e di grandi corridori al via. Sarà perché è gestita dall’Aso, la società che organizza il Tour, sarà, soprattutto, che ha sempre garantito spettacolo, scatti, lotte sui pedali, ma il terzo incomodo cresce di anno in anno, insidia per parterre il Giro e per bagarre entrambe. Forse anche perché chi ci va non ha più nulla da perdere. Forse perché se si mettono in fila una quantità spropositata di montagne non può andare altrimenti.