Stalnov, King e la Vuelta delle seconde occasioni
Il kazako si era allontanato dal ciclismo prima che il ciclismo lo riportasse in gruppo. Oggi sulla Sierra de la Alfaguara è stato battuto soltanto dall'americano, corridore da anni pari
C'è stato un momento, nel 2014, nel quale Nikita Stalnov era sparito. Nessuna fuga dal mondo, solo dal ciclismo, solo un po' di tempo per capire e capirsi. Si rimise a studiare, si sentiva stufo di intendere la bici come lavoro. La passione però non se ne andò, in bici ci saliva comunque ogni giorno, ma era diverso. Lo faceva perché gli andava, perché in fondo in fondo c'era altro nella vita e impegnarla ad andare sempre a tutta, sempre in giro per il mondo senza avere il tempo di vederlo, il mondo, non gli sembrava poi così eccitante. Anche adesso aveva un bimbo, voleva capire cosa voleva dire la parola casa. Poi ci ripensò, che solo gli stolti non cambiano mai idea, che la vita è una e andare a tutta non è poi così male. Si rimise a inseguire il ciclismo e il ciclismo si accorse di lui.
Stalnov sa di non essere un fenomeno, non ne fa mistero. Ma sa anche di valere qualcosa, soprattutto in salita. E così quando non si adopera per gli altri, prova a conquistare qualcosa per sé. Stalnov è uno che sa che non ci si sbatte per conquistare qualcosa, questo qualcosa non cade dal cielo. E allora oggi, alla Vuelta a España, visto che la fuga era andata e c'era un bel margine da difendere, ha provato a conquistare ciò che gli era sempre sfuggito, la vittoria. O almeno in Europa, che in Africa, alla Tropicale Amissa Bongo, aveva già vinto. Il ciclismo però è ancora eurocentrico e quindi non vale. Stalnov ha fatto ritmo, è scattato, c'ha provato, poi ha guardato alle sue spalle si è accorto che aveva staccato tutti, meno uno e quell'uno sapeva che non l'avrebbe mai staccato. E infatti non l'ha staccato, si è fatto staccare. Ha perso. Ha sorriso. Ha detto, "vabbé, speriamo di avere un'altra occasione".
Chissà. Occasioni così molte volte non tornano, ma Stalnov sa che vincere non è tutto e nella vita c'è di peggio, che forse doveva andare così. Perché Ben King è un corridore da anni pari. La gamba buona la trova ogni due anni e dato che ha iniziato a far bene nel 2010 i conti sono semplici. L'unica eccezione nel 2015, ma allora c'era il mondiale a casa sua, Richmond, e non poteva esimersi. Ben King è uno che si fa il mazzo sempre, e sempre si accontenta di farsi il mazzo. Ma quando il contratto si avvicina a scadenza sa benissimo che è meglio impegnarsi anche per se stesso, perché un curriculum con qualche alloro, risalta di più di uno basato sulla buona volontà. Così si è messo a spingere, a non mollare, a giustificare le tante parole che vennero spese nel 2010 sul suo conto quando a diciannove anni andava che sembrava una furia a tal punto da indicarlo come "fenomeno", come "futuro del ciclismo a stelle e strisce". Ben King ci rideva su allora e ci ride su ancora oggi. "È un sogno che diventa realtà, non riesco davvero a crederci", ha detto all'arrivo. Poi ha sottolineato che "vincere in un grande giro era l'obbiettivo di inizio stagione", e che mentre saliva verso la cima della Serra della Alfaguara "continuavo a crederci, continuavo ad avere fiducia nel fatto che il mio potenziale valeva una vittoria". L'ha ottenuta. Ora "tornerò a mettermi a disposizione, come ho sempre fatto".