Aru 2019, la vendetta
Perché bisogna ancora avere fiducia del ciclista sardo nonostante un anno da dimenticare
Sembra passato un secolo, era solo un anno e mezzo fa. Sembra un’altra vita, un’altra èra, un passato remoto che scivola tra le pieghe di memorie intoppate da troppi presenti, nelle quali i ricordi si affollano, si accavallano per perdersi per sempre. Lo scatto di forza e leggerezza lì dove la salita della Planche des Belles Filles si impennava nel bosco, lo sprint infinito verso l’arrivo, la bocca aperta e il pugno al cielo sotto l’arrivo come fosse una liberazione montana. E poi il terzo posto di tempra e resistenza in cima al Peyragudes e il giallo di una maglia che è un sogno vestita in cima ai Pirenei a coprir quella tricolore conquistata a Ivrea. Il Tour de France del 2017 sembrava essere per Fabio Aru rivalsa ed esaltazione. Il modo migliore per dimenticare la caduta che gli aveva fatto perdere il Giro d’Italia del Centenario, quello che partiva dalla sua Sardegna, quello che voleva fortemente vincere per diventare il volto di un ciclismo, quello italiano, che ad eccezione di Vincenzo Nibali faticava a imporsi. Un’errata gestione del finale di corsa a Rodez, un po’ di bronchite e un po’ di gambe che non giravano a dovere rispedirono il sardo giù dal podio. Finì quinto a Parigi. Che male non è per uno che l’anno prima aveva chiuso sedicesimo dopo una crisi bestiale sotto l’acqua alpina a Morzine. Finì quinto e poteva andare meglio, certo, ma di attenuanti ne aveva tante da riempire un tir di borracce.
L’infortunio, la preparazione cambiata all’ultimo, la stagione ripensata e improvvisata, i guai alle vie respiratorie. Lui non si era giustificato, aveva sorriso nonostante tutto, si era appeso alla bicicletta con la solita grinta e la solita passione. Aveva dato appuntamento a quest’anno, aveva promesso che si sarebbe rifatto con gli interessi.
È andata male. Molto male, una promessa non mantenuta. Un anno da cancellare. Soprattutto un anno che sembra aver cancellato quanto di buono aveva fatto Aru sino a oggi.
I ventotto anni sono un’età che segna, almeno nel ciclismo, l’entrata nel mondo adulto per un atleta, gli anni migliori per iniziare a vincere davvero. Non è un assioma perfetto, neppure un teorema sempre veritiero, ma un dato statistico che ha memoria antica e illustri precedenti. Su Ventu ai ventotto anni ci è arrivato lontano dalle corse con la mazzata di un Giro d’Italia iniziato male, continuato peggio e non finito. Ci è arrivato con troppi punti di domanda e un viso ancor più lungo del solito, con gli occhi gonfi di rabbia, le occhiaie di chi ha qualche rimpianto e l’espressione di chi ha perso per strada troppe certezze. Quelle che si era costruito stringendo i denti, con la determinazione e la grinta di pochi. Quelle che si era costruito dimostrando a tutti e soprattutto a se stesso che la sua dimensione naturale è la salita, che quando c’è da soffrire lui sa farlo meglio di tanti, che quando c’è da dare tutto lui sa darne anche di più.
Perché di Fabio Aru se ne è sempre parlato un gran bene, si è sempre detto che poteva fare buone cose, ma anche che non aveva nelle gambe le stigmate del campione. Su Ventu però di quello che dicevano gli altri di lui se ne è sempre fregato il giusto, ha sempre fatto parlare le strade e più queste salivano, più diventavano irte, più lui si sentiva a suo agio. In salita ha vinto una Vuelta a España nel 2015, a 25 anni. E prima aveva conquistato tre tappe al Giro d’Italia, salendo per due volte sul podio: terzo nel 2014 e secondo nel 2015, vestendo anche la maglia bianca di miglior giovane a Milano.
Ora che le strade sono diventate mute, che hanno smesso di raccontare una storia che sembrava pronta a diventare eccellente, sul deserto di risultati del sardo hanno iniziato a volteggiare gli avvoltoi. Quelli che ne annunciano una prematura fine, quelli che guardando la pochezza di un annus horribilis hanno già sentenziato il fallimento sportivo definitivo di un atleta.
Fabio Aru quest’anno si è fermato a un quarto posto in cima a Sassotetto alla Tirreno-Adriatico, a qualche piazzamento positivo al Tour of the Alps. Poi la difesa sull’Etna, gli affanni verso il Gran Sasso, la mezza crisi sullo Zoncolan e quelle piene nelle frazioni di Sappada e Prato Nevoso lo hanno fatto sprofondare in una dimensione che non gli era mai appartenuta: quella della coda del gruppo. E così si è intestardito a voler dimostrare che un altro Aru era possibile, ma neppure il tentativo di svoltare la stagione alla Vuelta è andato a buon fine: fuori dalla lotta per le prime posizioni, mai veramente in corsa per una vittoria di tappa, ventitreesimo in classifica generale. Poteva staccare dopo l’esclusione dalla Nazionale italiana ai Mondiali di Innsbruck, forse doveva farlo. È andato in Cina per una corsa che non valeva nulla, non è andata benissimo neppure dall’altra parte del mondo.
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Il ventottesimo anno però finirà ai primi di luglio del 2019 e di strada per inseguire il tempo andato ce ne è. Perché su di una bicicletta tutto si può cambiare, tutto si può ribaltare, tutto può prendere una piega diversa. Il saggio Alfredo Martini disse a un Franco Ballerini disperato, pronto al ritiro in seguito alla beffa subita alla Parigi-Roubaix del 1993 (il francese Gilbert Duclos-Lassalle lo superò al fotofinish) che “peggio dell’autoconvincimento dell’essere scarsi non c’è nulla”, che “un ciclista che non sa riconoscere le similitudini tra questo sport e ciò che fa scorrere il proprio mezzo, la ruota, non merita di essere un ciclista”, perché “tutto si può capovolgere e non sempre la vita sulla bicicletta segue un andamento lineare”.
Alfredo Martini non c’è più, le sue parole però dovrebbero essere un insegnamento per il sardo. Soprattutto se si considera come la carriera di un corridore si sia allungata negli ultimi anni. Chris Froome, Vincenzo Nibali, Geraint Thomas, per non parlare di Alejandro Valverde, hanno dimostrato come ormai si può essere competitivi e vincenti anche ben oltre i trent’anni, come le primavere sulle spalle possono trasformarsi in estati esaltanti.
E prima di loro la storia del ciclismo è piena di uomini dati per finiti capaci di ribaltare stagioni poco esaltanti, capaci di ritrovare voglia, motivazioni e il colpo di pedale giusto per tornare ad alzare le mani al cielo, avanti a tutti.
Fabio Aru ha la rara dote di esaltarsi laddove in tanti trovano il martirio, ha la rara capacità di attaccarsi alla volontà quando in tanti sono soliti alzare bandiera bianca. Ma per farlo deve appigliarsi a se stesso, deve tornare a credere in lui, lasciarsi andare al vento della volontà di emergere che lo ha sempre spinto sino almeno al Tour de France del 2017.
Su Ventu si attenuato, ma non si è estinto. Si è fatto intrappolare da una gabbia che si è autocostruito intorno, ma non è scomparso, si è preso una pausa – e ci può pure stare –, ma non deve sentirsi un bollito. Non lo è e non ha il diritto di pensarlo. Ha il dovere di reagire. Ha il dovere di mantenere fede alla parola data a Rai Sport: “C’è sempre qualcosa da imparare in tutti le situazioni, per uscire maturi e più forti di prima. Riparto dalla voglia di mettermi in gioco come sempre, ho voglia di fare bene, di correre, di andare in bici, di fare quello che mi piace. Io vado in bici perché mi piace, è una passione che è diventata lavoro”. E di farsi guidare al meglio da una squadra, la UAE Emirates, che nel 2018 lo ha troppo spesso lasciato solo.