Le novità sulla morte di Pantani e il senso di vuoto che assale noi pantaniani
Secondo l'ex generale della Finanza, Umberto Rapetto, il Pirata "non era solo quando la morte è arrivata". Il diritto della famiglia di sapere com'è andata e l'impossibilità di far finta di niente
Ogni volta è lo stesso. Ogni nuova notizia sul suo conto è un colpo al cuore, un salto all'indietro nel tempo, con quella sensazione indecifrabile, sospesa tra rabbia e sgomento, tra dolore e assuefazione. L'ultima viene dall'aula della Commissione parlamentare antimafia, dalla ricostruzione che ha fatto Umberto Rapetto, che fu generale di brigata della Guardia di Finanza, sul rinvenimento del corpo di Marco Pantani. "Qualcuno era con lui quando la morte è arrivata", ha detto prima di spiegare che qualcosa non tornava in quella camera del residence Le Rose di Rimini. La presenza di alcune "macchie di sangue" incompatibili con il contesto e la posizione nella quale, al momento del rinvenimento, "era posto il braccio: non si può pensare che sia stato lo stesso ciclista a spostarlo".
Ogni volta che escono novità sulla fine del Pirata è un deflagrare di sentimenti contrastanti che vagano tra la legittima richiesta di giustizia e la sensazione che il momento per farlo ormai sia andato, che il tempo massimo sia stato già oltrepassato e sia arrivato quello di lasciare in pace il ricordo che ognuno di noi ha di Marco Pantani.
In questi anni, mentre la famiglia giustamente chiedeva chiarezza, su Pantani si erano susseguite novità che novità non erano, informazioni irrilevanti, presunti scoop che oltre a mostrare il suo cadavere ad altro non servivano. Un rincorrersi di ipotesi, illazioni, supposizioni che avevano poca rilevanza, ma tanta eco mediatica. Parole che non sempre servivano. Parole che non avevano la capacità di modificare il ricordo, che erano incapaci di alterare il giudizio sull'atleta. Perché quello che Pantani ha fatto rimane incastonato come diamante in un anello di scatti e sfortune, di salite e risalite. Pantani è stato l'eccezionalità in un mondo che si stava trasformando in altro, l'essenza di un sentimento antico, il colpo di coda di un racconto secolare di uomini attratti e sedotti dalla fatica e dalla sofferenza, da quel sentimento strano e forse strambo che porta la gente, ancora, a scendere in strada, a sacrificare un pezzetto di tempo e di vita su quell'altare mobile chiamato bicicletta.
Ma forse non poteva che andare così perché chi si definiva pantaniano sapeva benissimo a quello che andava incontro: a una passione non banale, sempre sospesa tra gioia e baratro, tra vittorie e asfalto, quello che Marco Pantani ha toccato troppe volte in carriera. Quasi ci fosse una forza crudele che lo spingeva per terra, per renderne più grandi le imprese. Certo nessuno avrebbe mai pensato che potesse davvero andare così: il Pirata fatto fuori da un Giro d'Italia dominato e già vinto, buttato in balia di processi infiniti, di mormorii nemmeno troppo silenziosi, di accuse nemmeno troppo velate. Gli diedero del dopato senza prove, diventò il capro espiatorio, forse non del tutto innocente, di un gruppo di corridori che non correva solo a pane e acqua. Per lui tutto questo divenne una gogna impossibile da sopportare, una gogna che lo portò sino a quella camera del residence Le Rose di Rimini.
Eppure in molti non hanno fatto caso a tutto questo. Hanno perdonato lui, già dal momento dell'esclusione dal Giro d'Italia del 1999, e il ciclismo, che tra la fine degli anni Novanta e l'inizio degli anni Duemila ha dato il suo peggio. Ma non sono riusciti a assolverlo davvero dalla morte, che ha palesato quel senso di vuoto e impotenza in chi non poteva non dirsi pantaniano.
Gli stessi che si ritrovano ancora sospesi a capire cosa preferire: se la verità, sempre che esista, o il silenzio del ricordo. Perché ogni volta è lo stesso: una ferita che si credeva rimarginata, ma che rimarginata non è.
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