La gravità che non esisteva per Patrick Sercu. Addio al Re delle Sei giorni
Oggi è morto uno dei più forti pistard della storia del ciclismo. Si divise tra anelli e strada, vinse ovunque, rimase sempre un signore
Diceva che la velocità l'aveva presa dal padre Albert, ma, con un filo di rammarico, "il resto no". E il resto era la capacità di andare forte, fortissimo, sulle pietre. Diceva che lo scatto invece se l'era costruito da solo, per ostinazione e prossimità. Il velodromo di Izegem era a pochi passi da casa, anzi a poche pedalate, che per lui la bicicletta era sempre stata la cosa più importante e piuttosto di camminare preferiva pedalare. E di giri dell'anello ne aveva fatti tanti. Per l'equilibrio invece il merito doveva andare alla pista. Perché bucherellata com'era toccava industriarsi di anca, bacino e spalle per non finire a terra. Quando suo papà lo aveva sistemato aveva già capito come non si cadeva. È lì che da ragazzino ha iniziato a mettere le basi per essere Patrick Sercu, il Re delle Sei giorni, uno dei più forti pistard della storia del ciclismo.
Patrick Sercu è morto oggi a 74 anni. Il trono lo aveva lasciato nel 1983, a 39 anni, in tempo per vincere la medaglia d'oro nel Madison ai campionati europei di ciclismo su pista, per trionfare nella sei giorni di Rotterdam con René Pijnen e in quella di Copenaghen con Gert Frank, per salutare il 27 novembre il suo mondo, quello degli anelli, in lacrime. Da quel trono però non è mai sceso. Lo hanno lasciato lì tutti i pistard che ne hanno provato a seguirne le orme. Perché ottantotto Sei giorni vinte in duecentoventitré corse (novantatré volte sul podio) oltre a una medaglia d'oro alle Olimpiadi del 1964 – nel chilometro da fermo –, tre Mondiali nella velocità (uno da dilettanti), e diciotto titoli europei e trenta nazionali, sono un pedigree che nessuno può sfoderare.
Diceva sir Bradley Wiggins che "come Sercu non credo che ci sia stato nulla nella storia di questo sport". Diceva sir Chris Hoy che "io ho vinto molto, ma Sercu è stato quanto di più bello che ho visto in pista". Diceva Roger De Vlaeminck che "in pista era un fenomeno, su strada velocissimo, giù dalla bicicletta un signore d'altri tempi".
Diceva invece lui, Patrick Sercu, "che non so se ero poi così forte, certamente avevo meno paura degli altri di perdere. E meno problemi con la forza centrifuga. Credo sia dovuto al fatto che mio padre mi portò sul manubrio della bicicletta in pista. Mia madre lo voleva uccidere".
Sottolineava che di Sei giorni ne vinse tante perché "se ne correvano tante". Sottolineava che "negli anni miei in pista correvano anche quelli che andavano forte in strada e ci si menava a pedalate sia sul velodromo che sull'asfalto. Ne ho date e prese, ma è stato bello. Per noi faticoso, per gli spettatori però una gioia". Perché c'era lui e c'era Roger De Vlaeminck, c'era Freddy Mertens e Walter Godefroot, c'era Urs Freuler e soprattutto Eddy Merckx. Già Eddy Merckx, il Cannibale, che pure in pista non voleva perdere. "Fu il mio miglior partner era Eddy. Abbiamo iniziano come iniziano tutti, per accordi commerciali. E così ho corso con molti bravi corridore, ma lui è stato il migliore", aveva raccontato recentemente a Rouleur. D'altra parte "Eddy e io ci siamo completati a vicenda. Io ero la velocità, lui era la forza e noi eravamo amici. È stato molto importante, e ogni vittoria con lui mi motivava per vincere ancora".
E ogni vittoria in pista lo spingeva a fare bene pure in strada. La sua velocità la portò in giro per l'Europa, dalle Classiche, suo rammarico più grande, alle corse a tappe. Tredici frazioni vinte al Giro d'Italia e sei al Tour de France dove si portò a casa anche la maglia verde nel 1974. "E ai miei tempi mica era facile sprintare, che avevi un gruppo intero che ti voleva fare fuori". Faticaccia, "ma che vittorie", però nulla è mai stato "come la sensazione di libertà che ti dava la gravità che ti voleva portare giù e non ci riusciva mentre giravi a tutta sulla parabolica".