La Liegi-Bastogne-Liegi di Fuglsang è un sogno dal finale alternativo

La moglie del corridore danese mentre dormiva aveva previsto il finale della Doyenne. L'atleta dell'Astana l'ha realizzato staccando Davide Formolo dopo la Roche-aux-Faucons

Giovanni Battistuzzi

Quando nel luglio del 2017 Luc Besson presentò la sua ultima pellicola, Valerian e la città dei mille pianeti, raccontò che non sempre un regista ha una vita semplice, spiegò la difficoltà a volte di avere buone idee, a volte di metterle in scena, a volte di portarle a termine. Perché, sottolineava, non sempre una buona storia si traduce in buon copione eppure può diventare comunque un buon film. Trovò il tempo di parlare anche della sua carriera. Disse che tra i film di cui parla ancora volentieri, nonostante tutto, c'era Le Grand Blue, la storia di due apneisti e del loro duello alla ricerca di un record impossibile. C'era rimasto affezionato negli anni, "anche se ormai è un po' stinto" e probabilmente "non lo dirigerei più", forse perché "bisogna saper sognare le grand blue, e oggi i sogni tendono a colori più tenui".

 

Se si stinge il blu può venire fuori l'azzurro, un'azzurro quasi acqua. A Liegi, questo azzurro è macchiato di giallo, con l'oceano non ha nulla a che vedere, ma con il sogno sì. Era apparso nel sonno di una ragazza, Loulou, dopo una Amstel Gold Race che poteva finire diversamente. Il marito l'aveva conclusa al terzo posto e lei, il giorno dopo, gli aveva detto che aveva sognato che avrebbe fatto secondo alla Freccia Vallone e primo alla Liegi-Bastogne-Liegi. Lui le aveva sorriso, le aveva detto un magari poco convinto, aveva iniziato però ad accarezzare idee bellicose. Il sogno si è trasformato così in un canovaccio, poi in un copione, infine in un film: le grand azur. Jakob Fuglsang oggi ha vinto la Doyenne. Ha trovato l'unico finale alternativo a quello che aveva sinora proposto, quello del battuto con troppo merito e troppo onore.

 

Tra le côtes valloni il danese è riuscito a fare l'unica cosa che gli poteva permettere di arrivare a un lieto fine, ossia rimanere solo, condizione necessaria per quei corridori capaci di perdere in volata anche contro la propria ombra. Fuglsang sapeva di non aver alternativa alla solitudine e la solitudine ha iniziato a costruirla sull'ultima salita della corsa, la Roche-aux-Faucons, ha continuato a ricercarla su quel falsopiano infinito dopo la cima della côte (molto falso, perché si sale ancora un bel po', anche se a pendenze da poco) sbarazzandosi di Michael Woods, l'ha trovata nell'ultimo strappo prima della discesa lasciando sui pedali Davide Formolo, l'ha tenuta per i capelli mentre si gettava a cannone verso Liegi, quando sull'asfalto bagnato ha visto la bicicletta imbizzarrirsi e farsi dominare dalla gravità.

 

 

La libertà gli è esplosa in un sorriso, in un urlo, in un dito al cielo a ricordare i due anni dall'addio tremendo di Michele Scarponi, in una domanda, "è tutto vero?", posta al massaggiatore.

 

Lo stesso sorriso, appena un po' più tirato, che è comparso pure nel volto di Formolo, secondo al traguardo, pugno al cielo in segno di resa all'evidenza, meglio di così difficilmente poteva andare. Si è detto contento Roccia, ha riferito che gli è mancato poco, pochissimo, per stare con Fuglsang, ha confessato che ci riproverà, ma che prima di tutto vuole una birra, perché il ciclismo è sacrificio alimentare, soprattutto alcolico, e ogni tanto una libera uscita ci vuole.

 

La stessa che si è bevuto Tim Wellens dopo il traguardo. Il belga aveva provato la mattata sullo Sprimont, un tempo côte oggi degradata a salita senza nome, ha incrementato il ritmo sulla côte des Forges, è stato fagocitato dal gruppo spinto dai compagni del danese sulla Roche-aux-Faucons. "Peccato, brindo comunque al tentativo", ha detto. E brindano anche i valloni sulle strade, alzando i bicchieri a organizzatori che hanno capito che per rendere le corse interessanti non devono riempire i percorsi di salite verticali, ma lasciare ai corridori la possibilità di inventare finali alternativi. Cin cin.