La vittoria al contrario di Sho Hatsuyama. Guido Foddis racconta il Giro della maglia nera
Ultimo sì, ma 142esimo di 176 partiti da Bologna. Ultimo, ma arrivato a Verona, perché "è sempre meglio arrivare in fondo alle corse, anche se si arriva in fondo alla classifica", parola di Alfredo Martini
Ultimo, ma anche primo, a seconda del verso nel quale si legge la classifica. Ultimo, ma anche primo, almeno per ore passate in bicicletta. Ultimo, ma anche primo, in ogni caso estremo: sia per velocità o per lentezza. Primo dopo ventun tappe: Richard Carapaz. Ultimo dopo ventun tappe: Sho Hatsuyama. Tra loro 6 ore 5 minuti e 56 secondi, quasi tre chilometri all'ora di media oraria di differenza (39,386 km/h per l'ecuadoriano, 36.888 per il giapponese), che sembrano nulla, ma in 3.546,8 chilometri è un quarto di giornata.
Ultimo sì, ma 142esimo di 176 partiti da Bologna. Ultimo sì, ma giunto a Verona. Ed "è sempre meglio arrivare in fondo alle corse, anche se si arriva in fondo alla classifica", parola di Alfredo Martini. Ultimo sì, ma sempre meglio di penultimo, perché, almeno nel ciclismo, l'ultimo è l'altra faccia del primo e questo basta per non essere tra tutti gli altri.
Ne sa qualcosa Luigi Malabrocca che a forza di arrivare ultimo al Giro d'Italia (ce l'ha fatta nel 1946 e nel 1947) è diventato immortale. Emblema e antonomasia di chi arriva in fondo alla classifica, ma comunque arriva. Ultimo, non scarso. Perché l'ultimo è uno stile di vita, un modo di concepire la corsa al contrario, un carnevale ciclistico.
L'ultimo dal 1946 al 1951 vestiva la maglia nera e la maglia nera era diventata così applaudita, così celebre, così ambita che aveva iniziato a far concorrenza a quella rosa. L'hanno abolita perché lo sport deve celebrare il più forte, il più prestante, il più talentuoso. Eppure ci vuole forza, prestanza e talento anche per arrivare ultimi. Magari si potesse andare soltanto piano, tutt’altro. Ci vuole spirito, capacità di far di conto, a volte, perché no, classe. Perché esiste un tempo massimo oltre al quale si è fuori dalla corsa e quando questo si avvicina bisogna menare forte sui pedali.
Malabrocca si nascondeva, fingeva di bucare, si appartava a bordo strada, stava attento che nessuno scappasse all'indietro, poi rincorreva. E a volte lo faceva così forte che teneva il passo dei primi negli ultimi chilometri, solo che ore dopo. Smise di vincere la maglia nera per dispetto. Era il Giro del 1949, quello della Cuneo-Pinerolo di Fausto Coppi, e il Luisìn si nascose così bene in un covone di fieno che quando tagliò il traguardo dell'ultima tappa a Milano i cronometristi e i giudici, ormai esausti dall’attesa, avevano già lasciato le loro postazioni. Doveva essere il coup de théâtre che ribaltava le sorti della classifica all’incontrario, si trasformò nella celebrazione del vicentino Sante Carollo.
Sho Hatsuyama non ha forse la classe di Malabrocca, non ha il genio di Giovanni Pinarello (maglia nera nel 1951), ma ultimo al Giro c'è arrivato comunque. Ed è contento. Perché "alla terza o quarta tappa pensavo di non potercela fare ad arrivare a Verona", ha detto a Guido Foddis che sulla sua Repubblica delle Biciclette, come ogni anno, ha raccontato la lotta per l'ultimo posto. D'altra parte "la maglia nera è molto più sincera / tra il vino e le donne se la spassa tutta sera / la maglia nera in fondo è la chimera / dell'ultimo posto / difeso ad ogni costo / beati gli ultimi che la vita sanno goder".
Sho Hatsuyama è arrivato ultimo, ma si è tolto la soddisfazione di prendere il via per primo alla cronometro conclusiva. Non di passare per primo la linea d'arrivo perché da buon ultimo non se l'è sentita. Si è fatto superare sia da William Clarke che da Thomas Bohli: un eccesso di generosità.
Sho Hatsuyama è arrivato ultimo a Verona per scelta, non per necessità. Ha provato la fuga, si è sciroppato oltre un centinaio di chilometri solo davanti a tutti e forse lì ha capito che c'è più gusto ad arrivare in fondo che a stare in testa. E anche se dice che "non ho corso per arrivare ultimo", poco importa. Il ciclismo d'altra parte è una lunga storia fatta di storie più piccole che molto spesso perdono i contorni della cronaca per avvicinarsi a quelli dell'immaginazione. Il corridore della Nippo-Vini Fantini-Faizané sarà per sempre la "maglia nera" del Giro 2019 e anche se non l'ha voluta e desiderata come Marco Coledan nel 2015 tant'è. Il suo nome rimarrà in quell'albo d'oro al contrario tanto caro ai tifosi.