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il foglio sportivo

L'inno alla gioia di Peter Sagan

Giovanni Battistuzzi

Il Tour de France che si avvia alla conclusione e la rivoluzione che serviva al ciclismo. Parla Giacomo Pellizzari, autore di "Generazione Peter Sagan" (66thand2nd)

Gli capitava spesso di prendere la bicicletta. E non solo ogni estate quando andava nella sua casa al mare. Pure d’inverno, se non era in giro per il mondo, un giretto non lo disdegnava. Gli faceva bene, diceva. La bici l’aveva sempre associata a una cosa soltanto: spensieratezza. Come fosse una gioia sottile, quasi invisibile che ogni cosa riusciva a chetare. Una gioia che osservava anche nelle facce di chi aspettava il Tour de France. Ogni estate quella festa ambulante attraversava il paese e lo rendeva magico. Un flusso colorato e poi sagre, carne sulla griglia, vino e birra nei bicchieri alzati al cielo, cin cin. Si brindava, si chiacchierava di questo e quello, di vincitori e soprattutto di sconfitti. Le città di arrivo si trasformavano: nuovi colori, nuove forme e poi musica, balli. Sorrisi, quello vedeva. Nel volto di donne e uomini. E pure nel suo, ne era sicuro. Per questo una volta François Truffaut chiese a Jacques Anquetil perché non facessero anche loro corridori sfoggio di più sorrisi e meno ghigni da martiri. Il campione francese guardò il regista e gli disse che certe cose non si possono cambiare. Che pedalare era il meglio che gli poteva capitargli nella vita, ma che il ciclismo non può essere che sofferenza e sacrificio.

 

Dagli anni Settanta a oggi, per decenni, non è poi cambiato molto, almeno nel ciclismo. Poi è arrivato Peter Sagan.

 

 

Truffaut aveva visto in Anquetil una novità, un’apparizione a suo modo rivoluzionaria. Un bell’uomo in bicicletta, uno dai modi di fare affascinanti, così diversi da quelli che caratterizzavano i ciclisti sino ad allora. Ma nonostante il fascino che il campione transalpino emanava non aveva trovato neppure in lui quel sorriso che aveva inquadrato sulle labbra di Jeanne Moreau mentre scorrazzava in bicicletta tra le colline in Jules e Jim. Come ci fosse una sorta di distanza abissale tra ciclismo e bicicletta, un’incomunicabilità di fondo tra due mondi che invece avrebbero dovuto appartenere a una stessa dimensione.

 


Jeanne Moreau in Jules e Jim


 

Quel sorriso il regista lo cercò per una vita senza mai trovarlo. Né al Tour, né altrove.

 

Quel sorriso il ciclismo lo scoprì in un pomeriggio di gennaio di nove anni fa. Apparve dall’altra parte del mondo in un volto imberbe, che spuntava da una maglia verde acido. Si palesò tra Clare e Tanunda – prima tappa del Tour Down Under, breve corsa a tappe australiana –, in un bacio a favor di telecamera, in un cellulare mimato con pollice e mignolo, in una risata che quasi mai si era vista in testa a un gruppo che filava a oltre cinquanta chilometri all’ora.

  

In quella risata, dietro a quel bacio c’era Peter Sagan. E quella era la sua prima corsa tra i professionisti. Di lui dicevano che aveva talento, che aveva tutti i mezzi per diventare qualcuno. Ma c’era sempre un ma. E quel ma consisteva in una frase soltanto: “Deve imparare a capire come funziona il ciclismo”, ossia, “deve comprendere che il gruppo ha le sue leggi”. Da quel 19 gennaio Peter Sagan iniziò a comprendere le leggi del gruppo, a seguirle e a ribaltarle. Non tutte, soltanto quelle necessarie a portare il ciclismo fuori dai binari sui quali si era messo da solo senza capire che tutto il mondo attorno era cambiato, senza capire che c’era molto altro al di fuori di “quei nasi tristi come una salita”. C’era allegria, voglia di vivere. C’era il divertimento. Quello di pedalare.

 

“Il ciclismo aveva bisogno di trovare spensieratezza, di dimostrare che c’è altro rispetto alla solita e vecchia retorica della fatica, della sofferenza, del sacrificio. Perché quando si va in bicicletta non c’è solo sacrificio e sofferenza. C’è anche e forse soprattutto altro: c’è la gioia di pedalare, la felicità di faticare. Il ciclismo aveva bisogno di trovare la voglia di giocare. E Peter Sagan è diventato l’icona di tutto questo. Un’icona pop che sintetizza ciò che è l’andare in bici”, dice al Foglio lo scrittore Giacomo Pellizzari.

 

Sagan come “leader” di una nuova dimensione a pedali, quella che Pellizzari ha descritto in “Generazione Peter Sagan” (66thand2nd, 150 pp., 15 euro).

Un cambiamento che è iniziato anni fa, ben prima che lo slovacco si affacciasse al grande pubblico, ma che ha trovato nel tre volte campione del mondo il portabandiera, forse inconsapevole di un modo moderno di intendere la bicicletta. Perché dopo che per decenni era stata abbandonata e confinata nelle località marittime oppure in strade domenicali spinta da appassionati incapaci di ignorare il suo richiamo, dai primi anni Duemila è tornata a chiedere spazio tra le vie cittadine, riscoprendo il suo primigenio scopo, quello di essere mezzo di trasporto. “Sagan ha la faccia e i modi di fare giusti”, continua Pellizzari. “Quelli che non solo colpiscono chi in bici ci va, ma che riescono ad attirare al mondo della bicicletta anche chi alla bicicletta non era interessato”. Quelli buoni per unire “i vari mondi e modi del pedalare. Perché lui stesso è riuscito a passare dalla mountain bike al ciclismo su strada”. Quelli soprattutto adatti a trasportare il ciclismo fuori dalla sua nicchia. “Sagan ha avvicinato la bici ai ragazzi. D’altra parte un ragazzino è difficile che si possa appassionare a uno sport che parla soltanto di sofferenza, sacrifici e masochismo. Hanno bisogno di un personaggio a cui appassionarsi, un’idea di divertimento alla quale avvicinarsi. E lo slovacco è riuscito a diventare questo, a inserirsi in un immaginario più grande, quello dei campioni che attraggono l’immaginario collettivo”. È riuscito insomma a diventare la testa di ponte tra la bici e le nuove generazioni, “quelle che finalmente vedono nella bici qualcosa di figo, di positivo, di attraente”.

  

Perché Sagan è un vincente, uno capace di conquistare grandi classiche del pavé e Mondiali (tre), di battere tutti allo sprint oppure in cima a uno strappo. Eppure non è solo questo. È anche quello che impenna in salita, che autografa a un tifoso il suo libro in corsa, che regala borracce ai bambini, che scherza con tutti, che batte il cinque a Nibali quando alza il braccio per chiamare l’ammiraglia. È quello che, come scrive Pellizzari nel suo libro è riuscito a dare una nuova dimensione al ciclismo professionistico, concedendogli ciò che attraeva Truffaut: la spensieratezza.

 

 

È il ciclismo che in corsa riabbraccia la gioia che si può osservare ogni anno ai lati delle strade del Tour de France, quella che riempie le feste di paese che attendono l’arrivo della tappa della Grande Boucle tra stand gastronomici, maxischermi ciclistici e palchi musicali. Un ciclismo che non si rifà più soltanto alla nostalgia dei bei tempi andati, al ricordo di imprese e di campioni o che nei nuovi rampolli dell’èlite professionistica cerca rimandi a fenomeni del passato, ma che finalmente accoglie il presente. E il presente è lui, ma non solo lui. È fatto dagli Evenepoel e dai Van der Poel, dai Ciccone e dai Van Aert, ragazzi che hanno riportato la gioia del pedalare, i sorrisi in bicicletta.

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