L'incidente di Pozzovivo e il futuro del nostro ciclismo abbattuto dalle auto
Le medaglie agli europei e le morti sulle strade. Che senso ha parlare di rinascita del pedale italiano se poi non riusciamo a preservare l'incolumità dei nostri atleti (e di chi pedala)?
Al Giro d'Italia c'era andato per aiutare il capitano, Vincenzo Nibali. E c'era riuscito egregiamente. Al Giro di Svizzera per trovare il giorno buono, quello per riprovare l'effetto che fa trovarsi solo al comando. E l'aveva sfiorato sul San Gottardo alla terzultima tappa. Al Giro di Polonia invece c'era finito per mettere chilometri nelle gambe in vista del suo piccolo pensiero stupendo, quello di competere ancora per le posizioni che contano in una grande corsa a tappe. Domenico Pozzovivo voleva correre una Vuelta di Spagna da protagonista, sarebbe stato lui il capitano della Bahrain Merida. Perché trentasei anni possono essere tanti per molti, ma non per uno come lui che "non mi pesa andare in bicicletta. Ed è quando l'allenamento diventa più un obbligo che un piacere che si invecchia". Non ci sarà però nessuna corsa da qui a fine stagione per il lucano, perché Domenico Pozzovivo è stato investito da un'automobile e nell'impatto si è rotto gomito, tibia, perone e, forse, un po' di costole (domani ci saranno gli accertamenti). La Vuelta, se ne avrà voglia, la vedrà dalla televisione.
L'incidente è avvenuto nel cosentino, sulla strada che conduce a Laurignano, nella frazione di Dipignano. Una macchina l'ha investito a un incrocio ed è stato il conducente a chiamare i soccorsi. E rispetto agli ultimi fatti di cronaca che parlano di ciclisti investiti e di automobilisti fuggiti viene quasi da pensare che Pozzovivo sia stato fortunato.
Ed è qui che sta il problema. Perché l'idea che essere investiti o scaraventati a terra debba essere un'eventualità da non trascurare quando si pedala rappresenta una stortura, la fotografia dello spregevole limbo nel quale vivono tutti i ciclisti (e non solo quelli professionisti).
L'incidente toccato a Pozzovivo è accaduto il giorno dopo la conclusione degli europei di ciclismo, quelli che secondo il presidente della Federazione ciclistica italiana Renato Di Rocco "ci dicono che il ciclismo italiano gode di ottima salute". D'altra parte quattro ori (quello di Elia Viviani tra i pro, quello di Piccolo tra gli juniores e di Letizia Paternoster e Dainese tra gli U23), un argento, quattro bronzi sono un ottimo bottino, soprattutto perché i successi non sono arrivati soltanto dai professionisti, ma soprattutto dalle categorie giovanili.
L'ottimismo della Federazione però dovrebbe andare oltre ai risultati dei nostri atleti e iniziare a riflettere su qualcosa di più ampio, ossia le condizioni nelle quali i nostri ciclisti si allenano. L'aumento degli incidenti che coinvolgono i ciclisti, l'aumento dei morti in bicicletta negli ultimi anni, sono l'evidenza di una mancanza (quasi) totale di politiche urbanistiche adeguate e di un paese che considera troppo spesso chi va in bici come un intralcio al traffico. Dalla morte di Michele Scarponi a oggi tante sono state le promesse di cambiamento, di revisione del codice della strada e di un adeguamento del sistema infrastrutturale, nessuna è stata però presa davvero in considerazione, se non quella, autolesionista (il perché lo spiegavamo qui), dell'introduzione del casco obbligatorio.
Stiamo aspettando un nuovo campione da piangere?