Cent'anni di Coppi e Brera (su un palcoscenico)
Gianni Brera era nato l'8 settembre 1919. All'Airone, del quale ricorre il 15 settembre l'anniversario, aveva dedicato "Coppi e il Diavolo", un racconto biografico che Davide Ferrari ha trasformato in una pièce teatrale
Stesso anno, il 1919, stesso mese, settembre, una settimana di distanza, quelli che separano l’otto dal diciannove. Per anni la stessa dimensione. Una dimensione non comune, quella che contraddistingue gli uomini speciali, quella di chi eccelle in qualcosa. Eppure non è soltanto una questione di meriti personali, ma soprattutto di forma. Prima di essere un faccione e una voce impastata dal fumo Gianni Brera (il cui centenario dalla nascita è stato festeggiato l’otto settembre) è stato essenzialmente parola. Parola che in realtà erano parole, le sue, scritte su di un foglio che fu rosa e poi tornò grigio quotidiano. Parole lette in osteria, discusse, prese per vere, prese a male, credute od osteggiate.
Parola, la stessa che contraddistinse la carriera di Fausto Coppi. Perché sebbene l’Airone fosse soprattutto azione, fughe solitarie, vittorie e imprese magnifiche, periodi di pausa che sembravano indizi di un tramonto che sebbene previsto non sembrava arrivare e che quando arrivò si protrasse per lunghi e malinconici anni, era per molti soltanto parole. In questo caso non le sue. Quelli di altri, quelle anche dell’altro. Quelle pronunciate alla radio o stampate nei quotidiani. Quelle di giubilo e quelle di biasimo. Sino alle ultime: “Fausto Coppi è morto”. Ma che ultime non furono. Perché a cent’anni dalla nascita, oggi 15 settembre l’anniversario con tanto di festa a Castellania per l’arrivo della Caserta-Castellania (la riproposizione del viaggio che l’Airone – forse – fece per tornare a casa dopo la prigionia africana durante la seconda Guerra mondiale), Coppi è ancora un fiume di parole in piena che stringe, travolge, ricorda e incanta.
Coppi è un racconto, non solo ciclistico, a volte epico. È letteratura, ancora viva, perché è raro che le emozioni tramontino con il tramonto dell’uomo. E così è Brera, anche se forse in maniera meno lampante, perché chi scrive non ha tifosi, appassionati sì.
Scriveva Günter Grass che “a volte la parola viene soffiata via da una brezza di storia”, perché magari cade in “una piega di un vestito fuori moda in un cassetto e lì rimane”. È un rischio, perché la parola è ondivaga, spesso gioca a nascondino e a volte si nasconde così bene da doverla tirare fuori a forza, “rappresentarla per non perderla, darle voce e presenza”.
Una voce e una presenza. Come quella di Davide Ferrari. Una voce forte che sono mille voci, che scoppiano e si inabissano, che fuggono e poi tornano per avvolgerti. Mille voci che sono una sola, quella del Giuanbrerafucarlo, e al tempo stesso quella di Fausto Coppi. Una presenza discreta eppure forte, che riempie il palcoscenico, che riesce a essere Gianni Brera, il Campionissimo, Biagio Cavanna e tutta un’Italia che su di una bicicletta, quella dell’Airone, si esaltava e trovava una dimensione di sogno, un motivo per credere e andare avanti, nonostante tutto.
Foto di Giovanni Battistuzzi
Il “Coppi e il Diavolo” di Davide Ferrari è un tuffo in un’epoca che non c’è più eppure che non se ne è mai andata. È la forma, la voce e la presenza delle parole di Brera, quelle che tengono assieme la perfezione del Coppi ciclista e l’imperfezione del Coppi uomo. Cinquanta minuti nei quali brillano le mille tessere di quel mosaico complesso che è stato l’Airone, scisso tra bicicletta, quotidianità e le mille e mille facce che chi ne ha visto, letto, ascoltato le gesta gli ha messo addosso. Quelle mille e mille facce che se sommate in modo acritico, rischiano di rendere Coppi una macchietta, un santo senza macchia e senza peccato, un eroe stereotipato e senza spessore. Davide Ferrari riesce però a schivare tutto questo come un velocista alle prese con una volata di gruppo, la sua faccia, o meglio le sue facce, mettono in scena altro: la delicata complessità di un uomo divenuto campione e poi, per brevità, elevato a mito.