Il Mondiale dei mille volti dell'essenziale Stefan Küng
Sessantacinque chilometri davanti a tutti, un terzo posto e un campionario intero di smorfie. L'apparizione dello svizzero sotto la pioggia di Harrogate: “Ho pedalato con il cuore. Ho dato tutto. Gli altri due mi hanno battuto”
“Ho pedalato con il cuore. Ho dato tutto. Gli altri due mi hanno battuto”. La sintesi è una “cosa meravigliosa”, diceva il disegnatore, pittore e pubblicitario Armando Testa, perché “in un mondo complesso è meglio il giusto al troppo e se è difficile capire cos'è il giusto, allora è meglio il poco, trovare l'essenziale”. Stefan Küng all'essenziale è abituato un po' per nascita, svizzero, un po' per naturale tendenza a preferire lo sfondo al proscenio: “Troppe parole fanno perdere fiato. Faccio il corridore, il fiato mi serve”. E poi “meglio far parlare i campioni, hanno più vittorie da raccontare”.
È essenziale in tutto Stefan Küng. Nelle scelte di vita, nelle scelta delle parole, nel modo di correre. Soprattutto in quest'ultimo. “Ho vinto due gare prima di venire ai Mondiali. Una partendo da molto lontano. È quello il mio stile di corsa. Devo partire da lontano perché una volta che sono in fuga posso giocarmela fino alla fine”, ha detto a Cycling news dopo l'arrivo dei campionati del mondo di ciclismo disputati ieri a Harrogate. Per chi è alto un metro e novantatré e ha ottantatré chili di peso da portarsi in bicicletta il ritmo è essenziale, una necessità. “Far saltare di martello, scordarsi il fioretto”, ripeteva Jonathan Vaughters, ora team manager della Ef, a Johan Vansummeren, gigante da pavé, alla vigilia della Parigi-Roubaix del 2011, quella che il belga vinse a sorpresa davanti a Fabian Cancellara.
Küng di Cancellara dicevano (e qualcuno lo dice ancora) poteva essere l'erede. Perché alto, forte, potente, adatto alle cronometro e alle corse del Nord. Ma “non ci possono essere eredi di Cancellara. È come volere a casa propria un grande quadro: al massimo si riesce a trovare un'imitazione, al massimo una stampa”. Di Cancellara gli è rimasto la passione polverosa: “Per me la Roubaix è la più bella. Non so esattamente perché sia la mia preferita, è come innamorarsi di una donna, a volte non sappiamo il perché”, ha detto alla Liberté.
E come tutti quelli chi amano il pavé Küng sa che solo una cosa è importante: “Muoversi poco, stare davanti, andare veloce. Il più a lungo possibile”, o almeno questo, in sintesi era il pensiero di Rik Van Steenbergen, due Roubaix e due Giri delle Fiandre, oltre a tre campionati del mondo, vinti in carriera. Una lezione che ha messo in pratica domenica sotto l'acqua incessante dello Yorkshire, quando a sessantacinque chilometri dall'arrivo ha cercato di liberarsi dal gruppo e avanti al gruppo si è messo a pedalare con l'unico desiderio di trovare la solitudine. Una solitudine che non ha mai trovato perché prima accompagnato da Lawson Craddock, poi da Mike Teunissen e Mads Pedersen, da Gianni Moscon, da Matteo Trentin e Mathieu Van der Poel. L'americano l'ha smarrito a causa della caduta che lo ha tolto di mezzo, Van der Poel per una crisi di fame, Moscon per colpa di troppo lavoro per il bene altrui. E così sull'ultimo strappo del percorso s'è ritrovato con il danese e l'ex campione europeo. E con gente del genere solo un piano poteva essere quello buono per uno come lui: “Ho dato tutto sull'ultima salita, ho provato a staccarli, non ce l'ho fatta”.
Ha dato tutto con il suo modo elegante ed essenziale di andare in bicicletta, quello dei passistoni che sanno che l'unico modo per far fuori chi è più leggero e scattante di loro è “far saltare di martello, scordarsi il fioretto”, ossia menare il più possibile sui pedali, rendere l'incedere estenuante per tutti. Lui si è messo davanti a tutti, ha tirato per centinaia e centinaia di metri seduto sul sellino, aumentano poco a poco la velocità per renderla a tutti indigesta, fermo di spalle e di busto come solo un energumeno sa essere. Perché conscio che muovere troppo un corpo di ottanta chili su di una bicicletta è il modo migliore per dissipare energia. Un controllo totale che aveva un'unica valvola di sfogo: il viso. Stefan Küng negli ultimi due giri del circuito di Harrogate è stato un fluire ondivago di espressioni, un campionario intero di smorfie, un manifesto psicologico di quanto può essere espressivo il volto umano. Nei suoi tratti cubismo, surrealismo ed espressionismo hanno trovato una sintesi, un riassunto umano di un secolo d'arte. Un concerto di espressioni conclusosi con due guance che si riempivano d'aria, che sputavano aria, una testa che si abbassava, un sorriso tirato che usciva, nonostante tutto. La certezza che così è andata e così andava bene: “Ho pedalato con il cuore. Ho dato tutto. Gli altri due mi hanno battuto”.
Sul podio il suo volto si era normalizzato. Quando ha visto la medaglia di bronzo ha iniziato a penzolargli sul collo i suoi occhi si sono accesi, il suo sguardo si è perso in un'orizzonte più ampio di quello che aveva davanti. Lo sguardo che si confà a uno che considera la bicicletta più di un semplice mezzo: “Per me il ciclismo è romanticismo. L'interazione tra uomo e macchina durante la quale l'uomo può trasformarsi in macchina, mi ha affascinato sin da quando ero un ragazzino. E ora che il mio mestiere è questo so benissimo di realizzare il mio sogno”.