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Il ciclismo di Taylor Phinney è musica (e una lezione)
L'americano ha annunciato il ritiro. Domenica la Japan Cup sarà la sua ultima gara perché se “stai costantemente forzando la tua etica del lavoro perché la tua passione è altrove, allora il talento non significa nulla”
Dal grande ponte pedonale che attraversa il parco Hachimanyama nel centro di Utsunomiya, Giappone, in molti sono sicuri che si possa venire a contatto con una piccola parte del proprio futuro. Questione di energie, dicono. Secondo il sensitivo Aritomo Tushi è lì, in quel luogo della città, che vibrano all'unisono quello che lui definisce le oscillazioni della terra, le oscillazioni del mare, quelle della vita e quelle dell'aldilà. Del perché ci sia tutta questa concentrazione di vibrazioni nessuno però l'ha mai spiegato. Esiste e basta, così come esistono i fiori di loto, le luci al neon, i pesci nell'acqua.
Non c'è nulla di scientifico in tutto ciò, eppure quando nel settembre del 1990, dopo la corsa del Campionato del mondo di ciclismo su strada, le autorità ciclistiche locali portarono alcuni corridori a visitare il parco, Laurent Jalabert venne colto “da una strana euforia”, raccontò l'Equipe, proprio mentre gli occhi di Rudy Dhaenens “si incupivano”. Jaja era allora un ragazzino di belle speranze che aveva chiuso sesto il suo primo Mondiale tra i professionisti. Corsa che aveva vinto il belga che su quel ponte “divenne bianco come uno strofinaccio”, raccontò proprio Jalabert. “Fu qualcosa del tutto insperato. Sono sempre stato un corridore di buon livello, ma solo se c'era il pavé di mezzo. Conquistare la maglia iridata? Lo credevo impossibile”, raccontò Dhaenens durante la Milano-Sanremo del 1998. Fu la sua ultima telecronaca, morì poche settimane dopo mentre si recava nella cabina di commento del Giro delle Fiandre.
Dall'arrivo Japan Cup il grande ponte pedonale che attraversa il parco Hachimanyama non lo si vede. Lo striscione d'arrivo è posto sulle rive del lago Akagawa, a oltre una decina di chilometri a nord-est del centro della città di Utsunomiya. Ma almeno per Taylor Phinney questo non sarà un problema: una piccola parte del suo futuro l'ha già visto. E così l'ha prima accettato, poi l'ha scelto, infine l'ha annunciato. Domenica 20 ottobre, al termine della Japan Cup, Taylor Phinney dirà addio al ciclismo, forse non alla bicicletta, sicuramente alle corse.
In un'intervista pubblicata sul sito della sua squadra, la EF Education First, il corridore americano ha salutato tutti: “Questa decisione è stata qualcosa con cui ho lottato per un paio d'anni. Alla fine credo che il mio corpo ha fatto questa scelta per me”.
E così quello che sembrava imminente tre anni fa, accadrà davvero domenica. Nel dicembre del 2016 confidò a Cylingnews che "ero abbastanza certo che avrei fatto le valigie quest'anno dal ciclismo. Di notte andavo a letto e sognavo cosa avrei fatto della mia vita. E invece eccomi ancora qui, pronto a prepararmi per un'altra stagione". Phinney era da qualche anno che correva con la mente attraverso panorami che non coincidevano più totalmente con quelli che vedeva in corsa. E non soltanto per l'infortunio che rischiò di farlo smettere nel 2014, quando durante i campionati americani, per evitare una moto durante la discesa di Lookout Mountain nel Tennessee, finì addosso una ringhiera fratturandosi la tibia e recidendosi il tendine rotuleo. Un anno di distanza dalle corse, un universo diverso che piano piano ha iniziato a scoprire e soprattutto a gestire. Quello che veniva fuori da una testa che ogni tanto lo abbandonava, lo faceva sentire perso. Depressione, dicevano i medici. Voglia d'altro, diceva lui. Un altrove che ha trovato nella musica, un mondo che lo ha sempre affascinato ma che ha scoperto nei mesi di convalescenza prima digitando a caso sull'iPad con Garage Band e poi tra sintetizzatori e campionamenti, e nell'arte: pittura, installazioni, cose così. Un altrove che ha riprovato a cercare anche in sella alla bici, provando a superare la dittatura del “watt, watt, watt, salire in quota, boom, boom, boom che sta rovinando il ciclismo”: in questo modo “tanti bambini vengono bruciati sa questo sport perché li lanci in questa pentola a pressione di numeri che allontana completamente le persone dalla bellezza dell'andare in bicicletta”.
Foto tratta dal sito della EF
Taylor Phinney riusciva a sfuggire da questa dittatura soltanto nel suo mondo. Quello fatto di pietre francesi e fiamminghe, quello fatto di sterrati che attraversano lande contadine, come quelli della Dirty Kanza 200 o di altri trail in giro per il mondo, trail ai quali la sua squadra ha deciso da qualche anno di partecipare: gare sì, ma senza l'ossessione della competizione, gare in autonomia dove il correre è solo un aspetto di un'avventura più grande.
Taylor Phinney ha vissuto tutto questo e in tutto questo ha capito che era ora di smettere perché è venuto il tempo di “scambiare le mie fiches e uscire dal casinò”. Perché arriva sempre un momento nel quale “ti devi impegnare mentalmente soltanto per finire le gare. E quello è il tempo di di prendere quell'energia e metterla in qualcosa di nuovo, qualcosa di sconosciuto”. Perché “il talento non è niente senza etica del lavoro. E l'etica del lavoro viene dalla vera passione per ciò che stai facendo. E se stai costantemente forzando la tua etica del lavoro perché la tua passione è altrove, allora il talento non significa nulla. E se c'è una cosa che ho capito dal ciclismo è che puoi essere anche il più talentuoso ciclista del mondo ma se non ti svegli ogni mattina e non vuoi quella cosa, tutto questo talento non conta”.
Taylor Phinney di talento ne aveva a pacchi. Ori su pista e ori su strada (a cronometro sia tra gli junior sia tra gli under 23), vittorie contro il tempo e contro gli avversari, maglie da campione nazionale, una Parigi-Roubaix Espoirs, ossia la Roubaix per i dilettanti, una vittoria al Giro d'Italia (nel cronoprologo del 2012) e tre giorni in maglia rosa. Taylor Phinney aveva talento, per anni ha vissuto su di una bicicletta e per una bicicletta credendo che il ciclismo fosse il massimo per uno come lui matto per le due ruote a pedali. Quando ha capito che non era così è andato in crisi. Una crisi passeggera come tante, una crisi che l'ha portato altrove. Nel suo altrove, dove pedalare “rimarrà una cosa fantastica, forse la cosa migliore al mondo, ma non sarà più il mio lavoro”, perché non sempre capita che “fare per lavoro ciò che ti appassiona è la scelta migliore”.