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Addio a Raymond Poulidor e al suo ciclismo contadino e disperato
È morto il grande corridore francese, otto volte sul podio del Tour de France. Ma non era l'“Eterno secondo”, il grande perdente, era il primo tra i battuti
L’amore, almeno nel ciclismo, segue vie particolari, tutte sue, talora indipendenti e altre dalla logica e dal palmares. Sono, quelle dell’amore, strade ormonali, spesso contorte, addirittura bislacche, sempre sincere. A volte le vittorie sono un viatico verso la passione dei tifosi, anche se non sempre bastano. Perché certamente i vincenti avranno i loro adepti, i loro tifosi, “ma la passione popolare, l’amore vero, è riservata solo a chi riesce a far pulsare il cuore degli appassionati al ritmo del suo nome”, scrisse Pierre Chany.
Per molto tempo il cuore dei francesi suonava di un disperato PouPou.
Perché c’è sempre stato qualcosa di disperato in Raymond Poulidor, qualcosa di intenso eppur stranamente consolatorio nel suo essere campione tra altri campioni più forti – non solo di lui, di tutti –, nel suo essere protagonista raffinato senza mai essere primattore, nelle sue oltre sessanta vittorie senza grandi allori. Qualcosa di disperato e romantico. Poulidor era un Don Chisciotte della Creuse – ora Nuova Aquitania, un tempo Limousin –, un uomo in bicicletta cresciuto sul mezzo giusto nel tempo sbagliato, quello che prima fu di Jacques Anquetil e poi di Eddy Merckx e Felice Gimondi.
In quella sua faccia da campagna francese, in quel suo naso da fumetto francese, in quel suo sorriso più italiano che francese, gli appassionati di ciclismo d’Oltralpe vedevano un pezzo di passato a pedali che ritornava e non se ne voleva andare. Era una resistenza Poulidor, l’espressione più alta dell’ostinazione, dell’accettazione della sofferenza. Non era come l’altro, come Anquetil, bello elegante sopraffino, quasi divino nella sua perfezione dinamica e pedalatoria. Se Jacques, si diceva, poteva pedalare con una coppa piena di champagne posata sulla schiena senza che una sola goccia si versasse durante la corsa, PouPou l’avrebbe fatta cadere alla prima pedalata. Era dondolante, ciondolante, a volte goffo, “contadino, cioè schiena bassa a raccogliere ciò che la bici concede”, disse di sé cinque anni fa a chi scrive. Era furente e scattante, vincente ma mai trionfante. Quasi gli mancasse qualcosa, forse quel sadismo insito in ogni fenomeno della bicicletta, quella mancanza di empatia verso compagni e avversari che ebbe in Eddy Merckx la sua massima espressione.
Raymond Poulidor (sulla destra) con Jacques Anquetil durante la 20esima tappa del Tour de France del 1964 (foto LaPresse)
Poulidor sorrideva anche dopo le sconfitte, o meglio dopo le mezze sconfitte che ha avuto in carriera. Perché per la maggior parte dei corridori un podio al Tour de France sarebbe una mezza vittoria e lui di podi ne conquistò otto: tre volte secondo, cinque volte terzo. Finì alle spalle di Anquetil, Gimondi e Merckx. E pure di Lucien Aimar, scalatore potente, buon cronoman, per sua stessa ammissione però “per nulla campione”, eppure in giallo a Parigi, quel colore che PouPou non riuscì mai a vestire neppure per un giorno, perché “ogni tanto anche i ronzini hanno la loro occasione” e “la mia me la creai anche grazie allo zampino di Jacques”.
Era la Grande Boucle del 1966 quando Aimar mise in saccoccia la grande impresa al contrario di Anquetil. Il normanno quell’anno aveva vinto la Liegi-Bastogne-Liegi, ma gli bastarono le prime tre tappe della corsa francese per capire che le gambe non giravano. Aveva già perso diversi minuti dal rivale, aveva deciso di ritirarsi, quando la stampa francese gli diede il pretesto per continuare. L’Equipe in un articolo scrisse che “Poulidor aveva già messo alle corde Anquetil e l’avrebbe finalmente battuto”. E lui disse ai compagni che “Poulidor non avrebbe vinto”, perché “per vincere un Tour Poulidor deve battere me, non qualcun altro”. E così iniziò a corrergli contro. Sull’Aubisque, quando gli avanguardisti – tra i quali il suo compagno di squadra Aimar – avevano tre minuti di vantaggio, Poulidor scattò, Anquetil gli si mise a ruota e non gli diede un cambio, anzi gli si piazzò a lato per farlo innervosire: ci riuscì e quel giorno arrivarono a oltre nove minuti. La scena si ripeté. Prima sul Galibier verso Briançon, quando Anquetil seguì come un’ombra l’incedere prepotente di PouPou sempre affiancato e col sorriso sprezzante di chi con lo sguardo dice “non ce la farai mai”. Infine verso Chamonix, ultima tappa di montagna, quando Jacques, in difficoltà sul Forclaz, saputo che Raymond aveva staccato tutti, diventò una furia, fece una discesa da pazzi, riprese il gruppo, disse ad Aimar di seguirlo e si mise a tirare come un dannato. Poulidor guadagnò quel giorno solo cinquanta secondi, Aimar ringraziò Anquetil per l’aiuto, Anquetil si ritirò perché la missione era compiuta, Poulidor commentò che era un “peccato, ma che ci posso fare. Anquetil ha fatto quello che avrebbero fatto tutti al suo posto, aiutare il proprio compagno in maglia gialla”.
Sapeva perdere PouPou, non si è mai nascosto dietro a scuse o recriminazioni, non era nel suo stile. Sapeva perdere perché un secondo non è mai un perdente, al massimo un piazzato, e ci vuole classe anche a essere il più grande secondo della storia del ciclismo. Sapeva perdere senza essere sconfitto. La sua era sempre un'indomita resistenza a tutto e a tutti, un andare oltre a qualsiasi ostacolo. “È questo quello che ho insegnato a mio nipote”. E questo suo nipote, Mathieu Van der Poel, l'ha capito benissimo.
“Ho vinto molto nella mia carriera”. E in questo molto c’è una Milano-Sanremo, una Freccia Vallone e una Vuelta di Spagna. “Potevo vincere di più? Senz’altro, ma quelli erano anni difficili e di campioni non ce ne erano troppi. Non ho rimpianti però, ho fatto della mia passione una professione e questa è una grande vittoria”, disse Poulidor sempre cinque anni fa.
Eppure quando scattava Poulidor “la strada si riempiva di un sentimento strano, un misto di follia e di passione esagerata – scrisse Pierre Chany –, come se esplodesse un senso di rivalsa verso le ingiustizie della vita”, un boato d’orgoglio che sembrava venire da un altro mondo. Quello che ha raggiunto oggi Raymond Poulidor. Au revoir PouPou.