Foto tratta dalla pagina Facebook di Alessandro De Marchi

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In morte dei ciclisti italiani. L'urlo di Alessandro De Marchi

Giovanni Battistuzzi

Senza provvedimenti per migliorare la sicurezza stradale il ciclismo italiano è destinato a estinguersi. Il grido d'allarme dei nostri professionisti e alcune lezioni dalla Germania

Nel settembre del 2007 chiesero al presidente della federazione ciclistica tedesca, Rudolf Scharping, se la Germania sarebbe mai riuscita a ritornare protagonista su di una bicicletta. Erano anni difficili quelli. La Telekom, lo squadrone che prima con Bjiarne Riis e poi con Jan Ullrich era riuscito a conquistare il Tour de France, aveva annunciato l'addio, le inchieste sul doping stavano imperversando da Berlino a Monaco di Baviera e il ciclismo era considerato “la grande vergogna” dello sport tedesco: il titolo era della Bild. Insomma era una malattia contagiosa da debellare al più presto. Il numero uno della Bund Deutscher Radfahrer, si limitò a dire che c'era lavoro da fare e di essere fiduciosi. Negli anni successivi le squadre tedesche del ProTour/World Tour – la serie A del ciclismo mondiale – da due diventarono prima una e poi nessuna, gli sponsor scappavano, i corridori diminuivano, quelli vincenti praticamente sparirono.

 

Scharping della moria di risultati e di corridori però sembrava disinteressarsi. “C'è lavoro da fare, non preoccupatevi, sto lavorando”. E a chi gli chiedeva cosa stesse facendo dato che il ciclismo tedesco sembrava essere scomparso dal mondo della bicicletta, il numero uno della Bdr rispondeva che stava creando “le basi per il futuro”. Sottolineò alla Sueddeutsche che lui non stava al suo posto per incrementare il numero di vittorie in un anno, bensì per creare “un movimento ciclistico competitivo, agguerrito, soprattutto in salute”. E per rendere tutto ciò possibile c'era una sola via: “Salvaguardare i giovani che vogliono pedalare, far sì cioè che chi vuole muoversi in sella a una bicicletta lo possa fare in tutta tranquillità senza rischiare di piangere la mancanza anche di uno solo di loro”. Tra il 2007 e il 2013 Scharping si occupò soprattutto di una cosa: convincere lo stato tedesco che “la priorità di un paese civile era quello di dare la libertà a tutti di poter decidere come spostarsi”. Scharping si batté soprattutto per rendere le strade sicure, “perché il ciclismo è uno sport che scorre lì dove scorrono bestie d'acciaio ben più ingombranti e ben più veloci delle biciclette. E per non trasformare una gioia in un'ecatombe, per assicurarci un futuro e non dover rimpiangere il passato o, peggio, ciò che poteva essere ma non è stato, le strade devono essere un luogo dove buon senso e rispetto devono andare di pari passo”. Perché “la priorità della federazione ciclistica tedesca non è quella di vincere medaglie ma quella di permettere ai suoi tesserati di non morire pedalando”.

  

Scharping ha ottenuto la revisione del codice della strada con l'inserimento di corsi obbligatori di educazione stradale sin dalle scuole primarie e l'obbligo di creazione di corsie ciclabili nelle strade ad alto scorrimento, il (più che) raddoppio delle zone30 nelle città e maggiori fondi per la sistemazione della rete viaria. Tutto ciò ha permesso alla Germania di far scendere da 29 a 11 i morti ogni miliardo di chilometri pedalati in dieci anni. Inoltre nel 2015 una squadra tedesca, il Team Giant-Alpecin (ora Team Sunweb) ritornò nel World Tour. Nel 2017 anche la Bora-hansgrohe entrò nella serie A del ciclismo. E ora una nuova generazioni di corridori di talento si sono affacciati alle grandi corse, da Maximilian Schachmann a Pascal Ackermann, da Lennard Kämna a  
Emanuel Buchmann, con l'idea di mettere a breve piede sui podi più prestigiosi.

 

In Germania per rifondare un movimento che stava scomparendo sono partiti dalle biciclette, dalla salvaguardia dei ragazzi e dalla creazione di una cultura di rispetto e convivenza sulle strade, poiché “l'equivalenza è semplice: più persone pedalano più possibilità c'è possibilità di veder nascere un campione anche in un paese di tradizione ciclistica non secolare”, Scharping dixit.

 

Un po' più complessa invece sembra la situazione italiana dove la miopia delle nostre istituzioni continua a ignorare che per tornare a essere grandi protagonisti del ciclismo mondiale forse si dovrebbe puntare a non far scappare i ragazzini dalla bicicletta piuttosto che ingegnarsi in complicati giri di parole per tranquillizzare tutti che tutto sta andando bene e il ciclismo italiano tornerà a vincere ovunque. Il ct Davide Cassani più volte ha sottolineato l'urgenza di misure per rendere le strade sicure, per dare la possibilità a tutti di pedalare in tranquillità. La Fondazione Michele Scarponi è da quando esiste che lotta con le istituzioni per evitare che un nuovo Michele Scarponi rimanga sulle strade. Salvaiciclisti è da anni è che tenta di dare voce ai ciclisti urbani, i più esposti alle nefandezze del traffico cittadino, ai suoi pericoli, alla mancanza di buon senso di una parte degli automobilisti. Federazione e la quasi totalità del mondo politico si sono mossi poco e male, decidendo al massimo di puntare a introdurre nel codice stradale una regola tanto di buon senso quanto poco utile a modificare davvero le cose, quella che impone alle auto in fase di sorpasso di mantenere una distanza minima di un metro e mezzo dalle biciclette.

 

Un nuovo lamento ieri è arrivato dal gruppo, da chi la bicicletta la pedala in corsa su strade chiuse, ma che su strade si muove ogni giorno per allenarsi. “Sono stufo, letteralmente stufo e con i nervi a fior di pelle. Ho ancora male alla gola dal troppo urlare e inveire contro l’ennesimo automobilista durante l’ennesimo “quasi incidente” in cui sono stato coinvolto oggi. Non ce la faccio più”, ha scritto Alessandro De Marchi su Instagram. “Caro automobilista ignorante, oggi, con la tua bella Audi A6 grigia metallizzata, mi hai quasi ammazzato … per arrivare prima all’edicola! Caro automobilista ignorante ti odio con tutto me stesso e spero che tu legga queste righe o che qualcuno ricordando la tua auto pensi a te e te le faccia vedere”.

 

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Sono stufo, letteralmente stufo e con i nervi a fior di pelle. Ho ancora male alla gola dal troppo urlare e inveire contro l’ennesimo automobilista durante l’ennesimo “quasi incidente” in cui sono stato coinvolto oggi. Non ce la faccio più. Mattina di oggi, domenica 17 novembre, qualche minuto alle 10. Parto da casa come ogni giorno e mi dirigo verso il centro di Buja, salendo verso la salita di “tonino 2” come è conosciuta qui. Salgo piano, sulla dx , senza intralciare. Circa a metà di questa percepisco prima il rumore di un auto e poi la sensazione di “sfioro” sul mio gomito e mano sx. L’auto, una grossa audi, mi passa, al triplo della mia velocità, sfiorandomi per una questione di cm, ripeto CENTIMETRI. Mi sbilancio, finisco sul marciapiede basso che segue la salita e con tutta la mia voce inveisco contro l’automobilista. Lo stesso viene fatto dall’auto che lo segue, una piccola jeep blu, che, avendo visto tutta la scena, a forza di clacson lo fa accostare . Da lontano vedo che l’automobilista della jeep discute con l’altro. Arrivo sul posto che l’audi è ancora ferma, gli grido che ha rischiato di ammazzarmi e mi viene risposto : “ Non ti ho mica toccato, vai a cagare !!!” Allibito non faccio in tempo nemmeno a replicare, che questo riparte sgommando. Riparte sgommando per fermarsi 200m dopo di fronte ad un’edicola! Arrivo giusto per fare la foto a targa, auto e guidatore (mentre scende per andare all’edicola ) e sentirmi ancora maledire dal soggetto. Caro automobilista ignorante, riguarda bene la mia faccia qui sotto nella foto, riguarda la faccia di quello che stavi quasi per ammazzare stamattina . Perché si, caro automobilista ignorante, il “toccarmi” di cui parlavi, nella migliore delle ipotesi mi avrebbe mandato dritto all’ospedale o su una carrozzina, nella peggiore dritto in una bara! Caro automobilista ignorante, oggi, con la tua bella Audi A6 grigia metallizzata, mi hai quasi ammazzato … per arrivare prima all’edicola! Caro automobilista ignorante ti odio con tutto me stesso e spero che tu legga queste righe o che qualcuno ricordando la tua auto pensi a te e te le faccia vedere.

Un post condiviso da Alessandro De Marchi (@alessandro_demarchi) in data:

  

De Marchi non è il primo corridore a denunciare la pericolosità delle strade italiane e l'atteggiamento sempre più pericolo di automobilisti che per fretta o per disattenzione non capiscono che su di una bici sul lato destro delle strade non ci sono intralci alla circolazione ma uomini e donne che hanno una vita e vorrebbero avere un futuro. 

 

Un grido questo che è quello di tutti gli uomini e le donne che scendono in strada su di una bicicletta che chiede solo una cosa: rispetto. E consapevolezza. Consapevolezza di ciò che comporta guidare, attenzione a ciò che si sta facendo, capacità di capire che quando si investe un ciclista non è solo il ciclista a farsi male, se va bene, a morire, se va male, ma anche chi guida, se ha un cuore, subirà il rimorso di essere stato causa di dolore altrui. Fisico, se il ciclista si rialza. Di una vita sulla coscienza, se invece ci sarà una nuova bici bianca a bordo strada.

 

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