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Letizia Paternoster e l'invisibilità dei ciclisti

Giovanni Battistuzzi

La campionessa italiana è stata investita a Arco (provincia di Trento). Chi l'ha buttata a terra ha detto: “Non l'ho vista”. Non vedere un ciclista è diventato troppo ricorrente

“Non l'ho vista”. Oppure: “Non l'ho visto”. A seconda che si tratti di bicicletta o ciclista. La sostanza però non cambia e nemmeno il risultato. Una bici stesa, una donna o un uomo a terra. Se va benissimo si rialza subito per vedere in che condizioni è la bicicletta. Se va bene lo rialzano dopo un po'. Se va meno bene lo portano via in ambulanza. Se va male dritto al Camposanto.

 

“Non l'ho visto”. Come fosse una giustificazione, come fosse una scusa, un non è colpa mia di lampante evidenza. Succede praticamente un paio di volte al giorno: di notizie del genere ne sono piene le cronache locali. Una volta ogni trenta ora è una nuova lapide e una nuova bici bianca a bordo strada: un monito, la rappresentazione di una strage.

 

È successo anche oggi. Due volte. A Milano un ragazzo di venticinque anni è stato investito da un auto mentre pedalava. Si è subito rialzato con solo qualche livido su di una coscia, la bici aveva solo la leva di un freno scheggiata. Peccato che “chi guidava non si sia fermato”. Ad Arco, provincia di Trento, a una ragazza di vent'anni è capitato lo stesso. Un'auto si è immessa in una rotatoria e ha centrato la city bike sulla quale pedalava. È finita all'ospedale con una microfrattura a un polso e un taglio alla bocca. Non correva forte e questa è l'altra notizia. Perché distesa sull'asfalto c'è finita Letizia Paternoster, una delle più forti cicliste italiane, campionessa europea in carica nelle Under-23.

 

Tra il ragazzo milanese e la campionessa italiana però non c'è differenza. Il palmares, la bravura e tutto il resto non contano nell'invisibilità nella quale i ciclisti vivono ogni giorno sulle strade.

 

Solo pochi giorni fa il ciclista professionista Alessandro De Marchi, su Instagram, aveva gridato il suo disappunto, il suo schifo per una situazione che sta diventando intollerabile: “Davvero merito di rischiare la pelle per il semplice fatto di pedalare su di una strada troppo stretta o troppo trafficata? O perché mi sono spostato troppo in mezzo alla careggiata e vi ho fatto rallentare ? Davvero merito di morire perché vi ho momentaneamente ostacolato? Riflettete: potete uccidere con un’auto! E non ucciderete un semplice ciclista : ucciderete un marito, una moglie, un padre o una madre, un amico”.

 

Solo un mese fa un ragazzo di vent'anni, Edo Maas, è stato condannato a una vita su di una sedia a rotelle per la protervia di un'auto che si è immessa in una strada chiusa al traffico per un gara ciclistica.

  

  

Ogni giorno c'è un numero di ciclisti urbani, che nonostante tutto continuano ad aumentare, che si trova all'interno di una bolla, in un punto cieco della strada, della città, dell'esistenza. Non esistono, vivono avvolti in una tela che li rende invisibili. La loro presenza non conta, sparisce dai finestrini, diventa un'assenza. La risposta tanto sarà la solita: “Non l'ho visto”. E tutto si risolve.

 

Peccato che su quelle biciclette invisibili, sotto quel caschetto che tutto cancella, ci siano delle persone che non sono colpevoli di pedalare, ma che pedalano per volontà, necessità, esigenza, piacere o lavoro. Su quelle biciclette ci sono uomini e donne che magari permettono agli altri di mangiare e bere, di vestirsi e prelevare allo sportello, di tagliarsi i capelli o farsi le unghie, magari di esultare saltando su di un divano davanti a un televisore.