Quando diventammo i Senzacoppi. Aldo Grasso racconta Fausto Coppi
Il 2 gennaio 1960 all'ospedale di Tortona moriva il Campionissimo. L’Airone “non è stato soltanto un campione sportivo, ha in sé la grandezza dell’eroe letterario"
Erano le 8,45 del 2 gennaio 1960 quando tutti furono costretti a fare i conti con la cronaca, con quelle voci che venivano da Tortona e che avevano ormai conquistato, tramite radio e passaparola, l’Italia intera. Sessant’anni fa coppiani e non si unirono in una solitudine che nessuno aveva considerato neppure plausibile. Erano diventati i Senzacoppi. Perché Fausto Coppi non c’era più: il grande Airone aveva chiuso le ali.
“Ciò che ricordo di quei giorni era lo sbigottimento collettivo, una sensazione di lutto diffusa, quasi fosse morto un familiare”, dice al Foglio Aldo Grasso. “Del resto lo stupore e il senso di assenza che si iniziò a provare dal quel 2 gennaio era giustificato: nessuno era pronto alla dipartita del Campionissimo”.
Coppi aveva compiuto pochi mesi prima quarant’anni, ma era a tutti gli effetti ancora un corridore. Quella del 1960 sarebbe stata infatti la sua ultima stagione da professionista, quella del commiato al ciclismo e dell’abbraccio con il grande rivale: Gino Bartali avrebbe dovuto guidare dall’ammiraglia il canto del cigno dell’Airone.
Quei due, uno affianco all’altro, come fosse un Tour de France (all’epoca veniva corso dalle squadre nazionali) lungo dodici mesi. Un amarcord, il miglior saluto possibile a un’èra indimenticabile. I due grandi rivali che si ritrovavano uniti. Sembrava impossibile, sarebbe successo. Non accadde mai. Il viaggio in Burkina Faso, la febbre, la malaria non riconosciuta, la morte. E quel lutto che rese Gino Bartali il primo tra i Senzacoppi. “C’era allora un forte sentimento d’italianità che superava la divisione tra coppiani e bartaliani. Perché – continua Aldo Grasso – se è vero che quei corridori furono espressioni di due popoli, è altrettanto vero che entrambi, pedalando, riuscirono a far sì che l’Italia riconquistasse una dignità. C’era una forma di gratitudine che andava oltre lo sport. Le loro vittorie, almeno quelle del secondo dopoguerra, non sono mai state solo vittorie, ma una forma di redenzione per un paese che era uscito dilaniato dal conflitto mondiale”.
Foto LaPresse
Fausto Coppi aveva iniziato a correre in un’Italia contadina e fascista, aveva vinto il suo primo Giro d’Italia il giorno precedente all’ingresso in guerra al fianco della Germania. Era stato spedito in Africa e da lì era ritornato prigioniero degli inglesi. Poi aveva pedalato lungo tutta la ricostruzione, riuscendo, grazie ai suoi successi, a trasformarsi non solo in un eroe sportivo, ma anche, e forse soprattutto, in un motivo di speranza per molti italiani. Con la sua morte, all’alba del boom economico, si chiudeva un’epoca. Quasi che il caso, con spregio e ironia, si fosse fatto beffa di ciò che era stato e avesse voluto, tramite l’addio al suo campione più illustre, salutare la grande dipartita della bicicletta dall’immaginario dell’Italia. “La bici era stato il simbolo della Rinascita, il mezzo di trasporto di un paese che si rimetteva in moto. E nessuno meglio di Coppi ha interpretato la simbolicità di questo mezzo, la sua magnificenza”. Di quell’èra “proprio Bartali e Coppi furono i simboli, la rappresentazione migliore e più sincera di quelle due parti d’Italia che si erano iniziate a delineare dopo la Resistenza”, nota Aldo Grasso. “Da una parte il mondo arcaico, quello nel quale la bicicletta era l'esempio estremo della fatica e del riscatto sociale; dall’altra la modernità, nella quale essa si trasformava in un mezzo di progresso, in una spinta verso l’esplorazione di un altrove che mai era sembrato così vicino. Ginettaccio da un lato, il Campionissimo dall’altro e in mezzo un paese animato dalle bici, ma che la bici l’avrebbe presto abbandonata, almeno come forma di trasporto”.
Un mondo che racconta imprese lontane eppure vivissime, capaci ancora di affascinare, di rendere attuale e attraente il mito di Coppi. Perché l’Airone “non è soltanto un campione dello sport, ha in sé la grandezza dell’eroe letterario. Apparteneva a un universo orale che partiva dalla narrazione sportiva dei giornali, un mondo che ha superato i decenni e la cui forza espressiva è arrivata intatta sino ai giorni nostri”, riflette Aldo Grasso. “Prima della diffusione di radio e televisione, era fondamentale la fantasia, la capacità narrativa del cantore. E in tutto questo la verità fattuale non era determinante. Della Cuneo-Pinerolo del 1949 ricordiamo l’incipit: ‘Un uomo solo è al comando, la sua maglia è biancoceleste, il suo nome Fausto Coppi’. È stata veramente detta? Probabilmente sì, ma non ci sono prove. Come non ci sono prove incontrovertibili del reale andamento di molte sue imprese. Eppure non ha importanza. A rendere immortale Coppi non sono state solo le vittorie, è stata anche la magnificenza della narrazione di quella fatica, la necessità di doverci immaginare la loro grandezza. Coppi, fortunatamente, è anche un dono della fantasia”, conclude Grasso.