girodiruota
Per semplicità chiamato Vanni
Dieci anni fa l'addio a Giovanni Pettenella, medaglia d'oro nella velocità ai Giochi olimpici di Tokyo nel 1964
Il suo posto non poteva che trovarlo in via della semplicità (a Milano). Come fosse un segno del destino, una necessità, un'evidenza. Giovanni Pettenella, per brevità chiamato Vanni, era una uno di quelli a cui la parola semplicità calzava come una maglia fatta su misura, come una bici delle esatte dimensioni. “Sono una persona semplice, non posso essere altro che questo“. D'altra parte lo straordinario deve avere avere le fondamenta nell'ordinario per non essere fragile come un castello di carte. E il Vanni straordinario lo è stato prima in pista, poi in officina. “Nella mia vita ho sempre pensato che per fare le cose bene bisognava cercare prima di tutto di renderle facili, di fare in modo cioè che ci riducesse al minimo la possibilità di sbagliare”. E dato che nella sua carriera di pistard si ritrovò prima ad affrontare gente come Antonio Maspes e Sante Gaiardoni e poi come Daniel Morelon e John Nicholson, capì subito che “la cosa più semplice da fare era studiare i loro punti deboli e sfruttarli a mio favore”. Perché c'è sempre un modo per rendere semplice il complesso. “Se uno era forte sullo sprint lungo, lo costringevo allo sprint corto, se uno preferiva partire davanti, stavo davanti io”. E in tutti gli altri casi “mi affidavo al surplace”, che era la cosa che gli riusciva meglio. Tanto bene che è ancora suo il record mondiale: 1h, 3' 5". Insomma “non ero il più forte, per questo facevo girare il cervello prima che le gambe”.
Vanni il cervello lo fece girare, e bene, anche una volta sceso di bicicletta. Ovalizzò per primo i tubi del telaio, si inventò la prima ruota a 4 razze e un po' di cose utili al pedalare: attacchi per il ciclocomputer, per l'elettrostimolazione, per i pedali. Perché solo una cosa valeva e doveva valere: rendere semplice il complesso. Come quella danza immobile, contro Bianchetto il 27 luglio 1968, a Varese, sulla pista di Masnago. L'estrema esaltazione del surplace, quel gioco di ruote ferme e impercettibili movimenti di pedale, “la cosa più stancante che abbia mai fatto. Ma ne è valsa la pena”.
Vanni Pettenella ha lasciato le sue bici dieci anni fa, oggi.
(Le sue parole sono state dette a chi scrive 13 anni fa)