Girodiruota
Il posto di Gianni Mura nelle estati bambine
Il Tour de France che occupava i pomeriggi di luglio e le pagine dello sport di Repubblica la mattina
Le estati bambine erano divise in tre parti, tre momenti di un racconto nel quale la fantasia si sommava alle scoperte e tutto ciò che era complicato e apparentemente difficile si risolveva in un gioco e nulla più.
C'era giugno e la scuola che finiva e le giornate lunghe e infinite di corse e rincorse, colline che si trasformavano in battaglie di cowboy e indiani, prati che diventavano stadi di partite infinite, di trentasette a quarantuno fatti di gol e colpi di classe solo immaginati, stradine in ghiaia che diventavano passi alpini e pirenaici mentre il fiato si accorciava e nulla sembrava davvero impossibile.
C'era agosto e il mare caldo e il vento che si rinfrescava, mentre le spiagge a poco a poco perdevano gente e si riempivano di palloni leggeri che volano da tutte le parti e facevano sembrare i tiri potenti come quelli di Marc Lenders. I bagni, i canotti, le sere all'aperto, le sale giochi luminose e tintinnose di gettoni come una Las Vegas che nemmeno sapevamo dove stava, ma che si materializzava in mega schermi all'aperto e in film vecchiotti ma che si facevano volentieri rivedere, mentre il sole iniziava ad andare a dormire sempre più presto.
In mezzo tra la sensazione di infinito e l'inizio della malinconia, c'era il momento dei momenti, il mese dei mesi. Luglio. Perché a luglio c'era il sole dei soli, quello più caldo, e l'evento degli eventi, almeno per chi ogni volta che prendeva la bicicletta metteva una bandana e vestiva una maglia gialla. Il Tour de France era l'unica eccezione alla vita randagia, l'unica necessità domestica a cui non potevamo rinunciare. Il Tour de France era la voce paterna di Adriano De Zan, le immagini colorate di un gruppo multicolore che resisteva al caldo e alla fatica e che vagava tra temperature così assurde che uno dava pure ragione ai suoi genitori quando ti dicevano "sta a casa che fuori ti sciogli". I corridori mentre pedalavano sembravano i vecchi che occupavano le seggiole del bar sport sulla via di casa, con occhi che vagavano nel nulla, nasi e gote rosse. Certo le pance erano diverse, ma tant'è, non si può avere tutto.
Luglio era anche il momento del salotto che odorava di petrolio, dopo che il profumo di caffé se ne andava. Perché a luglio sul tavolino non c'era solo il giornale locale, ne spuntavano altri due. La Gazza, come a maggio, e Repubblica, solo a luglio. Perché non bastava vedere il Tour, bisognava rileggerlo. E per rileggerlo serviva Repubblica, o meglio, serviva Gianni Mura. Perché altrove era molto spesso ridondanza, il ricordo del già visto. Mura invece era altro. Un mondo nuovo, era tattile e olfattivo, era gusto e orecchio. Un viaggio nel viaggio, un tour nel Tour, una sorpresa che raccontava di eroi e tavole imbandite, di rocche e rocce, una Francia che sembrava la quintessenza della meraviglia. Gianni Mura era un appuntamento, l'abecedario di una fantasia che qualcuno ha mantenuto, che in molti hanno perso, l'idea che dal comune potesse in qualche modo nascere l'insolito.
Era certo anche altro Gianni Mura. Calcio, curiosità, passione. Era lavoro, "preciso e necessario, perché un giornalista deve avere la dignità di essere questo". O almeno così aveva detto a Sarzeau, davanti alle ostriche che la regione della Bretagna aveva concesso alla sala stampa al seguito del Tour de France 2018.
Gianni Mura è morto oggi, l'ha fatto in modo non preciso e soprattutto non necessario, ma tant'è. Lo perdoneremo questa volta.