Cent'anni di Malabrocca, l'arcitaliano
Luisin non fu solo la maglia nera del Giro d'Italia, fu un campione del ciclocross, un grande gregario, soprattutto un uomo che prima degli altri capì che si può vincere anche arrivando ultimi. E così capovolse il ciclismo. Il ricordo di sua nipote Serena
Malabrocca era sempre puntuale. Alle quattro in punto saliva i gradini che portavano agli scogli del molo di Grignano, dietro il Castello di Miramare, apriva la scatola con le esche, ne infilzava una sull’amo e, dopo due volteggi in cielo della sua canna, lanciava la lenza. Poi si sedeva e aspettava giocando ogni tanto di mulinello. Ogni primavera e autunno aspettava che il sole tramontasse e poi se ne tornava a casa.
Malabrocca si chiamava Luigi Ferrand, era nato in Francia, era capitato a Trieste per caso e lì era rimasto. Malabrocca lo iniziarono a chiamare all’ospedale psichiatrico di San Giovanni, quando lavorava con Basaglia. Glielo diede un paziente appassionato di ciclismo perché anche lui, come loro, un po’ matto era. Ma matto per bene, sempre dietro a tutti i medici e dalla parte degli ultimi. “Come Malabrocca, ma lui era un gran corridore, io solo un dottore come tanti”.
Perché Luigi Malabrocca, quello vero, un gran corridore lo era davvero. Uno che avrebbe potuto stare con i primi, vincere ben di più delle sei corse portate a casa in carriera. Almeno su strada. Perché nel ciclocross di vittorie ne conquistò parecchie. E pure due campionati italiani. E invece decise il contrario. Almeno al Giro.
Malabrocca era una dichiarazione d’intenti, una follia ciclistica, ma ragionata: il ribaltamento carnevalesco della corsa e forse del concetto di sport. Correre per perdere, per arrivare ultimo. D’altra parte, con quei due lì, il Fausto e il Gino, poco ci sarebbe stato da vincere, poco addirittura da sperare di poterlo fare. E allora tanto valeva sconvolgere l’ordine naturale delle cose, lasciare a Coppi e a Bartali la maglia rosa, e puntare all’ultimo posto, quello a cui Vincenzo Torriani, su suggerimento di Carlo Sironi, aveva deciso di dedicare addirittura un simbolo: la maglia nera. Doveva essere uno sprone per migliorare la classifica, per abbandonarla. Divenne un vessillo da esibire.
Malabrocca lo chiamavano il Cinese per via dei suoi occhi allungati, quasi a mandorla. Aveva soprattutto lo sguardo furbo e il cervello fino, lo sguardo e il cervello di chi sa capire prima degli altri come si muovono le cose e sa comportarsi di conseguenza. E così, lui che da ragazzino batteva Fausto Coppi e che di talento ne aveva parecchio, se ne creò uno, quello di arrivare in fondo, trovando i modi più assurdi per farlo, calcolando velocemente quanto poteva farsi staccare e, quando le cose si mettevano male, menare sui pedali come un forsennato per evitare che le sue fatiche risultassero vane. Perché nel ciclismo è mica facile arrivare ultimi: non è solo una questione di farsi staccare, di andare piano, bisogna saper fare di conto e evitare il tempo massimo, il limite oltre il quale si è troppo brocchi per rimanere in gruppo. E Malabrocca un brocco non lo è mai stato.
Malabrocca era una contraddizione di corridore, era soprattutto un arcitaliano: l’esempio perfetto dell’intuizione intelligente applicata all’arte della sopravvivenza. Luisin invertì le regole, si costruì un suo ciclismo, rese reale e ambito ciò che Achille Campanile in “Battista al Giro d’Italia” descrisse in modo ironico e assurdo: l’epica dei “sempre in coda”. Si creò un talento, una sua qualità fuori dal normale: l’arrivare ultimo. E non per limiti agonistici, per incapacità o sfortuna. Lo fece per scelta e per esigenza. “Anche se alla lunga il suo personaggio offuscò in parte il ricordo del corridore che è stato. Ricordo che non amava davvero quando i giornalisti e la gente lo ricordava solo come il vincitore della maglia nera. Lui sapeva di essere stato un corridore vero, uno che andava forte. Era anche lui orgoglioso di quello che aveva fatto, delle tante vittorie ottenute nel ciclocross”, ricorda Serena Malabrocca, nipote di Luigi.
Cent’anni sono passati dalla nascita del Luisin, cent’anni che non hanno offuscato il suo ricordo. “C’è ancora un grande amore popolare per mio nonno. Non tanto e non solo per le maglie nere conquistate, non tanto e non solo per essere stato protagonista negli anni di Coppi e Bartali, soprattutto perché è stato un uomo che ha scombussolato il ciclismo, non un rivoluzionario certo, ma uno che ha avuto la forza e il coraggio di riscrivere alcune regole del mondo della bicicletta”, continua Serena. Perché Malabrocca è stato un ribelle tranquillo, uno capace di trovare una sua dimensione unica stando sempre alla larga dallo sciocco protagonismo narcisista. “Chi ci ha corso insieme e chi l’ha visto correre sono concordi a dire che mio nonno era un uomo del gruppo e per il gruppo. Non si è mai sottratto dall’aiutare i compagni, ha fatto il gregario, portato borracce, faceva il lavoro sporco come tutti. E in quegli anni lì di lavoro sporco se ne faceva molto”, conclude Serena.