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Una mano d'aiuto

Se nel ciclismo il fair play è un'invenzione abbastanza recente, almeno tra i campioni, l'aiutarsi tra "forzati della strada" è un gesto antico, che si ripresenta a ogni corsa. Anche oggi tra De Bondt e Naesen al BinckBank Tour

Giovanni Battistuzzi

Il fair play è un'invenzione abbastanza recente almeno tra i campioni. Non c'era, poi è apparso. Sino a un certo momento non c'è mai stato nulla di male a sfruttare una sfiga altrui per mettere fieno nella propria cascina. La bravura di un corridore si vede anche nella sua capacità di stare in piedi, di non cadere nelle trappole che la strada semina in giro. Altri tempi, forse altri distacchi e possibilità di rivoltare il già fatto.

 

Non di soli campioni è però fatto il ciclismo, anzi, soprattutto di atleti "normali" è composto il gruppo. Di gente che pedala per portare a casa la pagnotta. Di gente che la testa del gruppo la abita per tagliare il vento per favorire glorie altrui. Gregari, angeli custodi, a volte, indispensabili quasi sempre.

 

Tra loro, tra quelli che Albert Londres chiamò i "forzati della strada", l'aiutarsi è sempre stato qualcosa di normale, a volte scontato, sempre umanissimo. Un po' perché vale la regola dell'"oggi a te, domani chissà se a me". Soprattutto perché la fatica è porca vera e a volte la vicinanza, la comunanza, l'aiuto reciproco, anche al di fuori delle regole di squadra, è sempre stata la norma. Una norma non scritta, perché regole non servono quando si tratta di empatia. È qualcosa che è successo mille e mille volte.

 

Mille e mille volte più una. Oggi, in Belgio, al BinckBank Tour tra Oliver Naesen, caduto e ammaccato, e Dries De Bondt, anch'egli caduto, anch'egli ammaccato, ma meno.