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Il Giro d'Italia in un'Italia mai vista

Giovanni Battistuzzi

Si parte dalla Sicilia, si scalano stivale e pandemia. Mauro Vegni: “Così i ciclisti convivranno con il virus”

A guardare il mare dall’alto la primavera vale l’autunno. Questione di colori, di riflessi sbiechi del sole sulla superficie marina, questione di onde più vivaci e insistenti di quelle estive. Visto da Monreale è una macchia blu che confonde l’orizzonte. L’odore del mare arriva leggero, si mescola a quello della città e della campagna. Da lassù non ci si accorge delle stagioni del mare, dell’aroma “che muta che invade che esplode che segna il tempo nostro lui che tempo non ha”, scriveva il poeta Ignazio Buttitta.

 

Sarà scendendo verso Palermo, lungo i 15,1 chilometri della cronometro d’apertura del Giro d’Italia 2020, che i corridori si accorgeranno dell’odore “d’alga vivace e salsedine distratta”. Solo Eros Capecchi, Toni Martin, Vincenzo Nibali, Domenico Pozzovivo, Geraint Thomas e Giovanni Visconti potranno capire quanto è cambiato dall’ultima volta, da quel 10 maggio 2008, partenza della 91esima edizione della corsa rosa. Sono passati dodici anni e cinque mesi. Cinque mesi che potevano diventare un anno. Si sono dimezzati, un sospiro di sollievo. Il Giro riparte. Doveva farlo da Budapest, è stata scelta la Sicilia, nei piani iniziali luogo d’approdo dopo la tre giorni ungherese. Il Covid ha sparigliato ogni cosa, il ciclismo in qualche modo ha retto: le bici, da quando sono state inventate, si muovono in equilibrio su pochi centimetri di gomma, la precarietà è normalità.

 

Il mare i corridori l’avranno accanto per gran parte del percorso nei primi tredici giorni di corsa. Lo abbandoneranno pochi chilometri dopo Cervia per mai più ritrovarlo. Ben prima però si accorgeranno che l’Italia nella quale erano abituati a pedalare non è la stessa. E qui il Covid non c’entra. Questione di luci, di colori, di odori. Le tonalità brillanti di maggio lasceranno il posto alle tinte d’ottobre, quelle che i corridori attraversano con una stagione alle spalle, gioie e delusioni sulle gambe, poche ultime occasioni, soprattutto la consapevolezza che una nuova stagione è alle porte.

  

 

Un cambio di consuetudini benedetto, almeno per come sarebbe potuto andare. Il Giro destagionalizzato sarà un’invasione di campo in quel mondo di foglie morte che sembrava essere esclusiva del Lombardia, qualcosa di talmente nuovo che nemmeno sembrava possibile. “E invece si parte. La speranza è che tutto vada bene, che tutti possano partire e arrivare. Il lavoro fatto è stato tanto, l’organizzazione è stata studiata e predisposta affinché tutto possa svolgersi in sicurezza”, dice al Foglio Sportivo il direttore del Giro d’Italia Mauro Vegni.

 

La bolla già chiusa attorno alla carovana. Due tamponi prima del via, due nei giorni di riposo. Due laboratori mobili in carovana e registri giornalieri sulle condizioni degli atleti che i medici delle squadre devono redigere quotidianamente. Nessun contatto con chi non appartiene alla carovana. La riedizione di quanto i corridori hanno già sperimentato (con successo) al Tour de France, ma senza il rischio che una doppia positività possa portare alla squalifica dell’intera squadra. “Ci sarà l’immediato isolamento, tamponi repentini per tutti i membri. Test che verranno ripetuti nei giorni successivi. L’attenzione è massima, ma non dobbiamo pensare al contagio come una colpa. Non sarebbe giusto mandare a casa un team per una positività”. Vegni si appella al buon senso di tutti, “perché col virus dobbiamo convivere e per farlo serve impegno, intelligenza, rispetto delle regole: bisogna rinunciare a qualcosa per il bene collettivo. I corridori hanno rinunciato alla normalità in corsa, il Giro al pubblico alla partenza e all’arrivo e per uno sport come il ciclismo, che è sempre passato in mezzo alla gente, non sarà mancanza da poco. Toccherà agli amministratori permettere o vietare l’accesso al pubblico lungo il percorso, noi ci adegueremo alle decisioni”.

 

Il ciclismo si adeguerà facilmente al cambiamento. L’ha sempre fatto. Tutto cambia ogni anno, dai percorsi ai protagonisti. E anche quando qualcosa ritorna, diventa scenario di una storia nuova, irripetibile. Una novità che è però solo un’inquadratura nuova in un film in continua produzione. La salita che porta a Piancavallo, 15esima tappa, è Marco Pantani che si libera di Zülle nel 1998.

 

  

Madonna di Campiglio, 17esima tappa, è un rimpianto e una ferita. Lo Stelvio, 18esima tappa, è Fausto Coppi solo che passa accanto a un W COPPI tracciato sulla neve; la faccia sfinita di Jacques Anquetil attaccato da Charly Gaul e Arnaldo Pambianco nel primo Giro dei senzacoppi.

 

 

Il Passo dell’Agnello, 20esima tappa, è Michele Scarponi primo, minuti avanti a tutti nel 2016, che rallenta e rinuncia alla possibilità di vittoria per lanciare Nibali verso la vittoria di un Giro già perso.

 

 

Sarà su queste montagne o su quelle successive (dopo lo Stelvio ci sarà l’ascesa ai Laghi di Cancano, dopo l’Agnello l’Izoard, il Monginevro e il Sestriere) che il Giro si deciderà, dopo che gli Appennini avranno limato gambe e ambizioni di molti. Sarà in queste tappe che Geraint Thomas proverà a togliersi di dosso la delusione per l’esclusione del Tour e i cattivi ricordi della corsa rosa; che Vincenzo Nibali tenterà di dimostrare di non essere troppo maturo per vincere ancora; che Jakob Fuglsang vorrà togliersi di dosso l’etichetta di inadatto ai grandi giri; che Simon Yates darà sfogo alla sua voglia di rivincita; che Steven Kruijswijk proverà a levarsi dalla mente il capitombolo giù dall’Agnello che gli costò la maglia rosa; che assisteranno al passaggio di un Peter Sagan speranzoso di ritrovare la vittoria perduta; che saranno un primo appuntamento con Joao Almeida, Aleksandr Vlasov, Jefferson Cepeda, Tobias Foss e Einer Rubio, gambe e teste buone per i Giri di domani.

   

 

L’unico Giro che non ha visto il maggio italiano è stato quello del 1946. “Ma di macerie reali non ce ne saranno, psicologiche sì – conclude Vegni – Quelle di un’incertezza continua, di domande a cui non riusciamo a dare risposte. Ripartire era importante, per noi, per il ciclismo, soprattutto per dimostrare che avanti si deve andare, che le avversità le si devono affrontare con il buon senso e l’intelligenza. Con il virus dovremo convivere. Questa è l’unica certezza che abbiamo”.

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