Il labirinto penale

Giovanni Fiandaca

Intenti moralizzatori, processi mediatici, guerre di correnti e norme ambigue. Così l'azione giudiziaria in Italia è diventata una dannosa patologia del sistema

Com’è noto, il nostro paese è afflitto da parecchie patologie. Tra queste, non solo la persistente presenza di gravi forme di criminalità (mafie, corruzione ecc.) e di illegalismi diffusi, ma anche un’altra patologia che indicherei così: il non infrequente fenomeno per cui l’azione giudiziaria di contrasto, anziché risultare davvero efficace, si ingolfa in un labirinto da cui è difficile uscire o – peggio ancora – finisce essa stessa col provocare effetti più dannosi che utili. Con l’aggravante risaputa di esporre, in ogni caso, a pubblici riti di degradazione morale e a incancellabili sospetti di colpevolezza le persone indagate (o persino soltanto indirettamente intercettate!).

 

Le cause del suddetto fenomeno sono molteplici, e interpellano le competenze diagnostiche di giuristi, politologi, sociologi, massmediologi e financo di esperti in scienze psicologiche. Provo qui a evidenziare qualcuna di queste cause, con l’ovvia avvertenza che il discorso richiederebbe un approfondimento e uno spazio superiori alle competenze di chi scrive e alla ragionevole lunghezza di un intervento giornalistico.

 

Assistiamo a pubblici riti di degradazione morale e a sospetti incancellabili di colpevolezza delle persone soltanto indagate

i) Prenderei le mosse dal principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, considerato più che in se stesso nelle modalità concrete con cui l’obbligatorietà stessa può essere attuata. Dal canto suo, il codice di procedura penale (art. 330) stabilisce che il pubblico ministero e la polizia giudiziaria prendono notizia dei reati anche di propria iniziativa. Ma il problema è questo: cosa vuol dire “notizia di reato”? Dal momento che il legislatore non lo chiarisce, il concetto rimane nebuloso: basta la mera possibilità o eventualità che un reato sia stato commesso, o deve invece trattarsi della emersione di un fatto che presenta sin dall’inizio le plausibili sembianze di una specifica figura criminosa? In effetti, la scelta di una delle due soluzioni interpretative dipende dalla previa concezione della funzione della giustizia penale. Una larga parte della magistratura ritine infatti, da alcuni decenni, che detta funzione non consista soltanto nel perseguire e reprimere reati già commessi, ma includa anche – specie nel caso delle forme di reità tipiche dei “colletti bianchi” – un controllo di legalità finalizzato a verificare se condotte illecite (o comunque censurabili sotto un profilo etico-politico) siano state per caso commesse: ciò nel presupposto ideologico che spetti, appunto, ai giudici sia il controllo “preventivo” di legalità, sia – per dirla con Alessandro Pizzorno – il “controllo della virtù” dei ceti dirigenti (politici, imprenditori, funzionari pubblici, professionisti ecc.). Ora, questa concezione eticizzante della giustizia penale induce non solo a ritenere legittima, o addirittura doverosa l’apertura di indagini che, lungi dal muovere da concrete notizie criminose, vanno piuttosto alla ricerca di possibili reati da contestare: ma anche a ravvisare un legittimo scopo del processo anche nello svelamento pubblico di vicende o condotte considerate, dagli stessi magistrati inquirenti, comunque sintomatiche di malcostume o dispregio degli interessi pubblici, non importa se rilevanti o no penalmente. Ecco che così il processo, da un lato, si perde in una lunga ed estenuante caccia di reati fantasmatici e, dall’altro, viene caricato di una missione pedagogica e di moralizzazione collettiva che – oltre a fuoriuscire dai compiti e dai limiti che la Costituzione assegna alla Costituzione – ben trascende le capacità di prestazione della giustizia penale (lo dimostra – tra l’altro – il sicuro fallimento dell’azione moralizzatrice di Mani Pulite!).-

 

 

ii) Esistono però anche casi in cui dietro il preteso controllo di legalità, in effetti, si nasconde il preciso proposito di strumentalizzare l’azione giudiziaria allo scopo di esercitare forme di condizionamento degli orientamenti politici generali, in modo da spingere governo e Parlamento nelle direzioni più gradite, oppure a più egoistici fini di visibilità mediatica e promozione carrieristica. A maggior ragione in questi casi, il processo diventa inevitabilmente un garbuglio inestricabile, in cui segmenti di fatti reali convivono con quasi-fatti (che definirei anche fattoidi) o fatti immaginari, verità e storytelling si mescolano secondo copioni simili a più o memo avvincenti romanzi politico-criminali; e il presunto “reato” da contestare è soltanto un pretesto artificioso per screditare e far uscire di scena personaggi politici avversati o per carpire la fama di coraggiosi e inflessibili persecutori giudiziari della corruzione pubblica.

 

Dietro al controllo di legalità si nasconde a volte il proposito di strumentalizzare l’azione per condizionare la politica

iii) La confusione tra fatti e interpretazioni, verità oggettiva e verità soggettive, processo giudiziario e processo mediatico, accertamento storico e romanzo o film, responsabilità penale e condanna etico-politica rischia, peraltro, di apparire fisiologica in certi processi ad esempio per fatti di criminalità organizzata che, nello stesso tempo, si intrecciano con oscure vicende storico-politiche e gravissimi episodi stragistici, come nel notissimo ed emblematico caso del processo ancora in corso a Palermo sulla cosiddetta trattativa Stato/mafia. Come ho osservato anche in altre occasioni, l’aspetto giuridico relativo al presunto delitto configurabile nel contesto specifico della trattativa (beninteso, al di là dei corposissimi reati di strage giudicati in altre sedi giudiziarie) diventa del tutto marginale se non superfluo, una bigotteria da giuristi iper-formalisti insensibili alla scandalosità del (supposto) turpe patto. Quel che davvero sembra contare è un processo che – a prescindere dal concreto esito giudiziario – funga da teatro pubblico per leggere le oscure vicende in questione in una pregiudiziale prospettiva criminalizzatrice, innanzitutto sotto un profilo etico-politico. In questa prospettiva di lettura, il soggettivismo ricostruttivo emerge in non piccola misura – tra l’altro – in quelle parti dell’impostazione accusatoria in cui si assume a ferrea legge della storia la ricorrente tendenza dello Stato italiano a stipulare compromessi con la mafia e, altresì, si dà pressoché per scontato che Cosa nostra abbia concepito la sua strategia politica violenta non da sola, ma in concorso con altri soggetti o entità deviate portatrici di interessi convergenti. Invero ipotesi ricostruttiva, questa, non estranea anche a magistrati di rinomata prudenza, come nel caso dell’ex procuratore nazionale e attuale presidente del Senato Pietro Grasso, il quale nel corso di una recente intervista al Corriere della sera ha affermato: “Si intuisce che Cosa nostra possa essere stata il braccio armato di altri interessi (…). Purtroppo però non è stato possibile trovare le prove”. Senza per questo mettere in forse la serietà e la competenza dei non pochi magistrati antimafia che sono soliti alludere a interessate alleanze tra l’universo criminale e settori più o meno deviati della politica, delle istituzioni, del mondo economico-imprenditoriale e della immancabile massoneria – e ciò sia tra le pagine dei provvedimenti giudiziari, sia (e forse più spesso) nell’ambito di interviste o audizioni pubbliche in sedi istituzionali – confesso che, da professore di diritto legato ancora a certi principi, non smetto di provare alquanto disagio di fronte al fatto che in Italia sia ormai divenuta prassi normale che un pubblico ministero o un giudice possano senza suscitare scalpore fare, appunto, affermazioni pubbliche di questo tipo: “Anche se mancano le prove, io intuisco o penso o sono convinto che la mafia abbia agito in combutta con imprecisati politici o imprenditori interessati a proteggere interessi sporchi o a conservare posizioni di potere et similia…”. Provo disagio, evidentemente, perché in questo modo si produce, anche preterintenzionalmente, un duplice effetto distorsivo: proprio perché si parla non da cittadini qualunque ma da “magistrati”, ciò che si dice assume in ogni caso alle orecchie della gente un qualche valore di verità; e, di conseguenza, la verità ipotizzata finisce – tanto più se più volte ripetuta – col trasformarsi, per la maggior parte delle persone, in verità vera. Insomma, lo storytelling prende ancora una volta il posto della ricostruzione attendibile della realtà effettuale.

 

iv) La ricerca della verità rischia, altresì, di impantanarsi in percorsi labirintici nei casi in cui i magistrati di un certo ufficio giudiziario compiono indagini su reati veri o presunti commessi da colleghi magistrati operanti in altre sedi. Si tratta infatti non di rado di indagini complesse anche dal punto di vista della qualificazione giuridica dei fatti, dal momento che può risultare problematica, e perciò fin troppo sottile la distinzione tra condotte censurabili pur gravemente soltanto sotto il profilo deontologico o dell’etica di ruolo, e veri e propri abusi penalmente rilevanti. Oltre alle difficoltà tecnico-giuridiche, vi è l’ulteriore aspetto disorientante connesso al ricorrente sospetto che le indagini vertenti su altri magistrati possano nascere da lotte di potere o da rivalità professionali interne alla corporazione giudiziaria, con la conseguenza di far ancora una volta apparire i processi come luoghi di fabbricazione di verità preconfezionate e asservite a interessi di fazione. Un tale sospetto produce una incredulità e un disorientamento prossimo allo choc quando, come pure accade, finiscono sotto accusa magistrati-star fino a poco tempo prima idolatrati come combattenti coraggiosi e implacabili nemici del crimine. Si pensi, ad esempio, al processo nisseno nei confronti della ex presidente dell’ufficio misure di prevenzione del Tribunale di Palermo, la quale – dopo essersi guadagnata la fama di indomita e accanita confiscatrice di patrimoni mafiosi – si è attirata l’accusa di illeciti favoritismi e persino di condotte corruttive nell’affidare incarichi professionali ad amministratori giudiziari e consulenti tecnici appartenenti a una sorta di suo personale cerchio magico. Al netto di possibili esasperazioni accusatorie e di possibili enfatizzazioni mediatiche, in un caso come questo il carattere oggettivamente incerto della diagnosi processuale può dipendere – tra l’altro – dalla ritenuta necessità di sindacare anche il merito tecnico delle prestazioni rese dai professionisti discrezionalmente prescelti, allo scopo appunto di stabilire se si sia trattato di prestazioni idonee per qualità e durata a giustificare i compensi elargiti o, al contrario, di prestazioni fittizie inquadrabili in una logica di reciprocità di favori. Com’è facile rilevare, questa diagnosi differenziale può presentare margini più o meno ampi di opinabilità.

 

Le indagini vertenti su altri magistrati a volte nascono da lotte di potere o da rivalità professionali interne alla corporazione

Un caso ancora più recente di indagine altrettanto complessa sotto l’aspetto tecnico-giuridico, ed egualmente sorprendente per il pubblico sconcerto che ne può derivare, riguarda un ancora più noto simbolo antimafia, cioè l’ex procuratore aggiunto e oggi avvocato-manager pubblico-uomo politico Antonio Ingroia, sospettato di peculato per presunti abusi relativi a compensi e rimborsi ottenuti in qualità di amministratore di “Sicilia e sevizi”, cioè la società che gestisce i servizi informatici della Regione siciliana: in poche parole, Ingroia avrebbe indebitamente fruito di risorse pubbliche per pagare lauti pranzi e pernottamenti in alberghi di lusso e avrebbe beneficiato di indennità e premi sproporzionati per eccesso rispetto ai magri utili conseguiti dalla società amministrata. Certo, un atteggiamento incline agli agi e ai lussi da parte di chi gestisce, tanto più con la pretesa di esercitare un ruolo di moralizzatore, scarse risorse pubbliche, può ben provocare fastidio innanzitutto sul piano dell’etica pubblica: e questo, se può costituire un motivo aggiuntivo per aprire una indagine, non costituisce tuttavia una ragione di per sé bastevole a dare per scontata l’esistenza di fatti punibili.

 

Piuttosto, in questo caso il giudizio sulla rilevanza penale – stando agli articoli di cronaca – sarebbe previamente condizionato dal tipo di interpretazione che i magistrati d’accusa tendono a dare a intricate discipline a carattere amministrativo fatte oggetto di successive modifiche e a regolamenti che lo stesso Ingroia avrebbe con “autodecisione” predisposto al fine (sempre da lui dichiarato) di prefissare in maniera trasparente i tetti delle spese di vitto e alloggio spettantigli per le trasferte di lavoro dalla capitale (ormai sua sede di residenza) in Sicilia. E’ quasi superfluo rilevare, ancora una volta, che non è commendevole che l’amministratore di una società regionale tutt’altro che florida stabilisca di propria (non disinteressata) iniziativa il livello di piaceri e lussi lucrabili grazie all’esercizio della funzione: per cui la pulsione emotiva e l’esigenza moral-retributiva di punirlo sarebbero più che comprensibili.

 

Ma, se si vuole evitare il moralismo giudiziario, bisogna fare i conti anche con la legalità formale, per cui il nocciolo del dilemma penale – tormentoso specie per un garantista – nei casi oggettivamente controversi sta qui: nel dubbio relativo al modo di intendere disposizioni normative – come spesso accade – di significato polivalente o ambiguo, è preferibile privilegiare l’interpretazione funzionale all’incriminazione o quella che porta a un esito assolutorio? In effetti, non pochi processi a carico di politici o di pubblici amministratori sono destinati a durare anni e anni, e ad avvilupparsi in grovigli inestricabili, non ultimo perché l’interpretazione delle norme extrapenali la cui violazione fa da presupposto alla incriminabilità è intrinsecamente controvertibile, per cui la decisione se chiedere il rinvio a giudizio o l’archiviazione tarda a maturare anche per la preoccupazione dei magistrati di esporsi a prevedibili critiche di repressivismo moralistico o, all’opposto, di clemenzialismo favoritistico. Se tutto ciò è vero, tra le cause dei processi labirintici che alla fine danneggiano la credibilità della giustizia penale agli occhi dei cittadini, rientra senz’altro l’enorme quantità di norme superflue, confuse o ambigue da cui districarsi è arduo altrettanto che da una boscaglia fitta e oscura.

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