Consip, i tempi della giustizia e quelli della politica
La giustificazione farlocca della parrocchietta che difende il capitano del Noe, Gianpaolo Scafarto
Gli amici della parrocchietta, quelli che con il capitano Gianpaolo Scafarto si sono scambiati il sonno e anche molte informazioni, scrivono che dietro quell’errore non c’è trucco e non c’è inganno. È vero, verissimo che il braccio destro del pm Henry John Woodcock, punta di diamante della procura di Napoli, ha attribuito all’imprenditore Alfredo Romeo una frase che apparteneva invece al consulente Italo Bocchino, ma si tratta di un innocentissimo errore, compiuto in buona fede e senza secondi fini. Smettetela, per favore, di parlare di complotto e di manipolazione. Anzi, se proprio volete essere dei nostri, fate sapere al procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, che l’accusa di falso mossa nei confronti del capitano è una vera e propria esagerazione: sinceramente ne poteva fare a meno.
La linea della minimizzazione portata avanti dagli amici della parrocchietta, con in testa il Fatto di Marco Travaglio, viene corredata da un ragionamento. Scafarto, che non è un imbecille, sa che un errore di attribuzione viene prima o poi a galla. Perché le intercettazioni passano al vaglio del giudice per le indagini preliminari, del tribunale del riesame, degli avvocati difensori, dei giudici di merito. Come si fa dunque a ipotizzare il dolo o, peggio, una manovra di basso impero giudiziario, congegnata a tavolino per colpire Tiziano Renzi e il mondo politico che si raccoglie attorno a Matteo Renzi?
Il ragionamento filerebbe liscio se non ci fosse un impietoso dettaglio: che i tempi della giustizia, purtroppo, non coincidono con i tempi della politica. E per dimostrarlo basta ricordare che senza l’intervento della procura di Roma, la manipolazione del capitano Scafarto sarebbe rimasta ben nascosta nel sottofondo dell’inchiesta per chissà quanto tempo: non meno di due o tre anni, se proprio vogliamo parlare di un eventuale rinvio a giudizio e del processo di primo grado.
La politica invece ha tempi fulminanti: l’inchiesta avviata da Woodcock a Napoli e poi, in parte trasferita a Roma, matura tra la fine del 2016 e l’inizio di quest’anno. La notizia che il padre dell’ex premier è indagato per traffico di influenze viene data “in esclusiva” dal Fatto il 16 febbraio e appena un mese dopo, il 15 marzo, si vota al Senato la mozione di sfiducia presentata dal Movimento cinque stelle per abbattere il ministro Luca Lotti, amico intimo e braccio destro di Matteo Renzi, coinvolto anche lui nella danza delle influenze.
Se Silvio Berlusconi, con Forza Italia, non avesse mantenuto la testa sulle spalle e avesse ceduto alla vandea giustizialista, la sfiducia sarebbe passata e il governo Gentiloni sarebbe andato in crisi. E tutto grazie anche a quella frase, manipolata da Scafarto, che consegnava ai giornali e al mondo politico la certezza che il corruttore Romeo e Tiziano Renzi si erano addirittura incontrati e avevano patteggiato tante e indicibili nefandezze.