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Cosa succede quando i carabinieri diventano un'Arma dei pm

Luciano Capone

Dal manipolatore del caso Consip al superteste della Trattativa. Storia di una grande guerra fratricida

Gli ultimi sviluppi dell’inchiesta Consip sono stati interpretati nell’ottica di uno un duello tra pm, o meglio, in uno scontro tra procure. La procura di Roma non si fida del lavoro dei colleghi della procura di Napoli, ha prima revocato le indagini ai carabinieri del Noe, a causa della ripetuta fuga di notizie, e poi controllato per bene il fascicolo. Così i magistrati romani hanno scoperto le manipolazioni nelle carte dell’inchiesta e indagato il capitano Gianpaolo Scafarto, braccio operativo del pm napoletano Henry Woodcock, per aver falsificato le intercettazioni che “inchiodavano” Tiziano Renzi. E per questo i pm Mario Palazzi e Paolo Ielo stanno rileggendo tutti gli atti e riascoltando tutte le intercettazioni per controllare se ci sono altre contraffazioni.

 

Ma in realtà, oltre che come uno scontro tra procure, questa vicenda può essere letta anche come il risultato di attriti e faide all’interno dell’Arma dei carabinieri, che emergono in maniera evidente quando il generale Tullio Del Sette riorganizza il Noe, prima sottrae al vicecomandante Sergio De Caprio, alias capitano Ultimo, le funzioni di polizia giudiziaria e poi lo assegna all’Aise, il servizio segreto per la sicurezza esterna. La cosa non viene accettata di buon grado dagli ufficiali del Noe, che continuando a lavorare sotto la sapiente guida di Woodcock, si ritrovano a indagare nell’inchiesta Consip lo stesso comandante generale dell’Arma Tullio Del Sette e il generale dei carabinieri Emanuele Saltalamacchia per fuga di notizie. Ma con il passaggio degli atti a Roma, a sua volta, i carabinieri del Noe vengono ritenuti responsabili di fuga di notizie con un’indagine affidata ad altri carabinieri, quelli del Nucleo investigativo di Roma. Appare abbastanza evidente che nell’Arma ci sia uno scontro di potere o comunque che si stiano consumando una serie di vendette incrociate, che di certo non sono utili all’accertamento dei fatti.

  

Ed è in questo contesto che il capitano Gianpaolo Scafarto, ancora adesso difeso insieme al suo gruppo dal pm Woodcock, ha condotto le indagini al centro dei veleni di questi gioni. Dalla lettura delle informative del Noe, dal linguaggio pieno di suggestioni e di collegamenti arditi, si vede un innamoramento dell’ipotesi accusatoria con il richiamo al “controspionaggio” della famiglia Renzi e del governo Renzi e la ricostruzione “verosimile” di dialoghi mai intercettati tra Tiziano Renzi e il faccendiere Carlo Russo. Non si sa se Scafarto coinvolga falsamente i servizi segreti e manipoli le intercettazioni che “inchiodano” Tiziano Renzi in maniera volontaria o per errore. Si vedrà se il carabiniere ha agito in maniera dolosa o colposa, autonomamente o sotto impulso di superiori. E’ anche possibile che la fascinazione nell’ipotesi accusatoria fosse talmente forte da fargli sentire le voci che confermavano la tesi del pm Woodcock. Anche perché questo modo poco trasparente di operare si ritrova in un’altra inchiesta di Woodcock, quello sulla Cpl Concordia, in cui sempre Scafarto ha inserito in un’informativa il nome di un imputato, il sindaco Giosy Ferrandino, che nell’intercettazione reale non compariva.

 

Gli scontri nell’Arma e lo sputtanamento tra carabinieri, in nome o per delega delle tesi dei pubblici ministeri di riferimento non sono una novità, ma una dinamica che diventa sempre più ricorrente. Il caso più eclatante è quello del maresciallo Saverio Masi, capo scorta della grande scorta di Antonino Di Matteo, il pm palermitano del processo sulla “trattativa stato-mafia”. Nel 2013, dopo che Antonio Ingroia si è lanciato in politica e Di Matteo è diventato Gran cerimoniere della trattativa, Masi si ricorda che era a un passo dall’arrestare i due superboss latitanti di Cosa nostra, Bernardo Provenzano e Matteo Messina Denaro, se solo i superiori non gliel’avessero impedito frapponendo ostacoli. Così, a circa dieci anni di distanza dai fatti, denuncia insieme al collega maresciallo Salvatore Fiducia sette ufficiali dei carabinieri, tra cui il generale Gianmarco Sottili. Ma le accuse non hanno trovato riscontri e, dopo aver archiviato l’indagine per favoreggiamento a carico degli ufficiali mascariati, il gip di Palermo Vittorio Alcamo ha ordinato l’imputazione coatta per calunnia e diffamazione di Masi per le dichiarazioni “tardive” e “contraddittorie”. Per le stesse, diffuse durante una conferenza stampa, Masi è rinviato a giudizio a Roma per diffamazione, ricevendo però pieno appoggio dal suo scortato Nino Di Matteo. C’è da parte del pm palermitano molta riconoscenza nei confronti di Masi, sia per la tutela della sua sicurezza personale sia per il suo ruolo di puntellatore delle inchieste di Di Matteo in qualità di teste. Masi ha infatti testimoniato nel processo di Di Matteo per il favoreggiamento della latitanza di Bernardo Provenzano a carico del l’ex generale dei Ros Mario Mori e dell’ex colonnello Mauro Obinu, entrambi assolti sia in primo grado che in appello. Ma il caposcorta di Di Matteo è anche un testimone d’eccellenza nel processo del secolo sulla “trattativa stato-mafia”, in cui lo stesso Di Matteo rappresenta l’accusa.

 

Ma mentre gli imputati dei processi di Di Matteo vengono assolti, i guai sembrano arrivare per i testimoni. Perché nel frattempo il maresciallo Masi è stato condannato in via definitiva per falso per aver taroccato dei documenti allo scopo di non pagare una multa. Così il carabiniere Masi – nei secoli fedele al pm Di Matteo – condannato per falso e a processo per calunnia, sembra ripercorrere la carriera giudiziaria dell’altro supertestimone del processo sulla trattativa, Massimo Ciancimino, anch’egli nei guai per aver calunniato ufficiali delle forze dell’ordine e taroccato documenti. Il fatto che Di Matteo e Woodcock difendano Scafarto e Masi, anche dopo l’emersione di gravi condotte e addirittura di condanne definitive, è un colpo alla credibilità delle inchieste ma anche degli stessi pm.

 

Pochi mesi fa, in una delle sue incursioni politiche, Di Matteo elogiava i princìpi poco garantisti “Codice etico del Movimento 5 stelle”. Ma secondo le regole del codice grillino, uno come il suo caposcorta, condannato e rinviato a giudizio, dovrebbe essere stato allontanato da un pezzo.

  • Luciano Capone
  • Cresciuto in Irpinia, a Savignano. Studi a Milano, Università Cattolica. Liberista per formazione, giornalista per deformazione. Al Foglio prima come lettore, poi collaboratore, infine redattore. Mi occupo principalmente di economia, ma anche di politica, inchieste, cultura, varie ed eventuali