Non solo il caso Consip. Il triangolo della Repubblica giudiziaria
Funziona così: c’è un ufficio giudiziario, un giornale che si abbevera alla fonte inquisitoria e l’M5s che agita le carte in Aula
Roma. La Repubblica giudiziaria ha la forma di un triangolo, non sensuale come quello di Renato Zero. C’è un ufficio giudiziario che indaga, un giornale che si abbevera alla fonte inquisitoria e un movimento politico (guai a chiamarlo “partito”!) che nelle aule parlamentari agita le carte degli inquirenti per invocare le dimissioni di un ministro. Un circolo vizioso. La geometria non è un reato, per carità, ma la puntualità di iniziative giudiziarie controverse, se non manifestamente infondate, getta un’ombra sinistra sull’operato di alcune procure. E sull’equilibrio precario tra i poteri dello stato. Consip non è soltanto la centrale che arbitra gli appalti della Pubblica amministrazione, oggigiorno Consip disegna il triangolo inquietante che, attraverso un’azione coordinata sapiente ma non impeccabile, ha avuto l’effetto di azzoppare ancora di più l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi.
Lo scorso 23 dicembre il Fatto quotidiano si guadagna lo scoop svelando per primo la notizia dell’inchiesta partenopea che dagli appalti del Cardarelli ha puntato dritto al cuore del potere politico romano. Dopo aver appreso di essere sotto indagine dal quotidiano diretto da Marco Travaglio, il 27 dicembre il ministro Luca Lotti, uomo simbolo del renzismo, si reca volontariamente in procura a Roma. Nello stesso giorno, lo stesso quotidiano, per mano della stessa firma (Marco Lillo), rende conto ai lettori del verbale di Filippo Vannoni, presidente di Publiacqua, il quale ha parlato con i pm partenopei e, per osmosi, con il giornale di Travaglio. “Da quel che risulta al Fatto”, si legge nell’articolo, Vannoni avrebbe “messo a verbale anche lui i due nomi più pesanti”, Lotti e, “anche se in termini meno precisi e più vaghi, il premier Matteo Renzi”. Bingo. Naturalmente non c’è prova alcuna che Renzi junior sapesse dell’inchiesta, la pista viene presto abbandonata, non esistono neppure intercettazioni ambientali o telefoniche dalle quali emerga il ruolo di “fonte” imputato a Luca Lotti, ma tanto basta al cronista ben piantato nel milieu giudiziario napoletano per instillare il dubbio, per adombrare il sospetto. Il Fatto ottiene e trascrive pedissequamente le carte napoletane prima e meglio degli altri, quando si dice la fortuna. A tamburi battenti, s’imbastisce la grancassa mediatica pentastellata. “Omertà di Stato su Lotti indagato, #Renziconfessa”, è uno degli hashtag che rimbalzano tra i profili twitter dei parlamentari grillini (ooooops, ‘portavoce’!). Sul blog delle Stelle, che con Grillo non ha nulla a che spartire e ceci-n-est-pas-une-pipe, il teorema accusatorio viene propagato nell’agone politico: “Renzi non vuole raccontarci nulla? – si legge nel post della giornata – Non sapeva o non vuole parlare? Se non sapeva perché non lo dice? E se sa perché non vuota il sacco?”.
Poiché il triangolo non è un’invenzione, e va considerato, nello stesso pezzo si esaltano le eroiche gesta del giornale d’area: “La notizia dell’inchiesta è stata resa pubblica sempre dal Fatto quotidiano il 23 dicembre, ma NESSUNO NE STA PARLANDO!!”. Segue la filippica contro l’“omertà di stato” condita dalla suggestiva tesi complottistica sulla compiacenza dei telegiornali Rai e il silenzio di Luca Lotti e la inquietante circostanza che il ministro del governo Gentiloni abbia conservato la delega all’editoria. Il fatto che abbia pure ingaggiato come difensore Franco Coppi, “lo stesso avvocato di Andreotti e Berlusconi”, assurge a prova di colpevolezza. Eccovi servito il triangolo della Repubblica giudiziaria: il boccone del pm, l’amplificatore del (Fatto) quotidiano e l’arena politica con un ficcante Luigi Di Maio che si esercita, scansando i congiuntivi, nell’allocuzione pro sfiducia: “Ci sono terremotati che manifestano per le case, le aziende se ne vanno all’estero e questi signori parlavano di appalti Consip, parlavano con dei pizzini di trasferire soldi ad alcune persone”.
Come "spunta"
il nome "Renzi"?
Il Fatto ottiene
e trascrive pedissequamente
le carte napoletane prima e meglio
degli altri, quando
si dice la fortuna.
Poi s'imbastisce
la grancassa mediatica pentastellata.
"Omertà di Stato
su Lotti indagato, #Renziconfessa",
è uno degli hashtag
che rimbalzano
su Twitter
Il garantismo utilizzato con Virginia Raggi (ops) è andato a farsi benedire, i casi “non sono paragonabili”, spiega il vicepresidente della Camera, “non mi risulta che la Raggi abbia preso soldi da qualcuno che è in galera”. E dire che neppure Lotti è accusato di “aver preso soldi”, non ce n’è traccia nelle carte – non si sa quanto attendibili – della procura, neppure a Tiziano Renzi la pubblica accusa contesta di aver intascato denaro. Ora che l’intercettazione delle meraviglie, quella che, secondo il Noe, dimostrava l’incontro avvenuto tra Alfredo Romeo e babbo Renzi, si è rivelata frutto di un oscuro atto manipolativo, sarà a dir poco arduo sostenere l’accusa nei confronti di Renzi senior. Serve non poca fantasia per sostenere l’attività di traffico di influenze verso un soggetto che non si è mai incontrato. La voce non era di Romeo, chiariscono i pm capitolini che agli inizi di marzo hanno revocato la delega delle indagini al Noe.
Il capitano Gianpaolo Scafarto è un uomo dello stato che, interrogato dai pm circa le modalità di conduzione delle indagini, si è trincerato dietro il silenzio. Scafarto è lo stesso che ha piazzato le cimici negli uffici Consip, ha ricostruito i pizzini di Romeo fin nella discarica (in assenza del vaglio di un gip e di un avvocato della difesa), ha raccolto le dichiarazioni dell’ad Consip Luigi Marroni. Ecco allora che il triangolo si ricompone: se il fronte giudiziario vacilla, interviene il megafono mediatico. Per Travaglio, manco a dirlo, se Scafarto “avesse architettato quella manovra sperando di incastrare babbo Renzi e ingannare i pm, gli avvocati e i giudici, sarebbe un idiota […] Più probabile l’errore materiale: sempre spiacevole, ma umanamente comprensibile in quell’enorme mole di elementi da esaminare”. Una svista, una vocina scambiata per un’altra, che volete che sia, la scelta di non rispondere al pm, come pure i commenti ridondanti, contenuti nella medesima informativa, circa il ruolo di Renzi junior, sono quisquilie da ossessionati colpevolisti. L’invenzione del contropedinamento dei servizi segreti a tutela di palazzo Chigi si annovera pure tra i peccati veniali, il carabiniere insiste sul ruolo dei servizi sebbene il titolare della vettura sospetta sia stato correttamente identificato prima di redigere l’informativa… che volete che sia.
Scafarto, a capo di una unità specializzata in reati ambientali che con il pm Woodcock si occupa regolarmente di corruzione e appalti, saprà difendersi, gli è già capitato in altre occasioni. Lo scorso 24 gennaio l’ufficiale si è presentato al tribunale di Napoli per rispondere alle domande dei legali dell’ex sindaco di Ischia Giuseppe Ferrandino. Nel caso Cpl Concordia, relativo agli appalti per la metanizzazione di Ischia, pm Woodcock, Scafarto è incappato nell’ennesima svista, una parola scambiata per un’altra, e il nome dell’allora sindaco, “Giosy”, inserito laddove non esisteva. In aula l’ufficiale ha portato con sé il computer personale, scrigno di migliaia di brogliacci, incluse le conversazioni riservate tra il comandante della Guardia di Finanza Michele Adinolfi e l’allora premier Matteo Renzi. Proprio così, nel gennaio 2014 le telefonate in cui Renzi si lamenta di Enrico Letta (“non è cattivo, non è proprio capace”) vengono captate dallo stesso team investigativo… e chi si aggiudica l’esclusiva? Il Fatto quotidiano. Pure allora non si fa attendere l’interrogazione vergata da 94 deputati pentastellati. “Dalle intercettazioni pubblicate dal Fatto – tuona Alessandro Di Battista – emerge una Repubblica fondata sul ricatto. Renzi venga subito a riferire in Parlamento”. Il triangolo, sì, l’avevo considerato.