Bufale e pensieri. Chi è Ardita, erede di Davigo, idolo di tutti i Di Maio d'Italia
Il procuratore aggiunto di Messina ha ricevuto il suo “battesimo grillino” a Ivrea, da Casaleggio jr. È lì che ha pronunciato la frase sui criminali rumeni. E non solo
Roma. In tanti in questi giorni si sono scagliati contro Luigi Di Maio, il candidato premier in pectore del M5s, per la sua affermazione sull’import del 40 per cento di criminali rumeni. Sono piovute le critiche, le accuse di razzismo e di ignoranza. Si è ironizzato sulle sue numerose gaffe, dai problemi con il congiuntivo alla difficoltà di collocare nello spazio e nel tempo Pinochet e il Venezuela, ma forse non è proprio colpa del vicepresidente della Camera.
Certo, la cifra è sballata e le considerazioni sconclusionate, ma questa volta Di Maio, anziché improvvisare come con la grammatica e la geografia, da buon studente fuori corso di Giurisprudenza si è abbeverato alla fonte di un magistrato, anzi di un “fuoriclasse della magistratura”, il procuratore aggiunto di Messina Sebastiano Ardita. Parliamo dell’erede designato dal capocorrente di Autonomia e Indipendenza Piercamillo Davigo. Il battesimo pubblico di Ardita dopo l’uscita del libro “Giustizialisti”, scritto a quattro mani con il padrino intellettuale Davigo e la prefazione di Marco Travaglio, è stato celebrato nella chiesa del M5s, in occasione di Sum#01, l’evento in ricordo di Gianroberto Casaleggio. È in quest’occasione che Ardita, intervistato da Gianluigi Nuzzi, ha pronunciato la frase sui criminali rumeni, insieme a una serie di affermazioni che avevano la comune caratteristica di essere false.
“Qualche tempo fa il ministro rumeno degli Interni ci comunicò che di tutti i mandati di cattura europei che riguardavano cittadini rumeni il 40 per cento proveniva dall’Italia – ha detto Ardita – Quindi questo significa che quattro rumeni su dieci che avevano deciso di andare a delinquere avevano scelto il nostro paese come luogo nel quale andare a delinquere”. Come ha notato il direttore del Post Luca Sofri, l’affermazione di Ardita – poi ripetuta, per come l’ha capita, dal povero Di Maio – non dimostra affatto che il nostro sistema penale sarebbe favorevole ai delinquenti stranieri. È un dato perfettamente fisiologico, visto che in Italia vive circa il 40 per cento dei rumeni emigrati in Europa: due percentuali sovrapponibili.
Ancora più insensata appare l’affermazione speculare di Ardita, anche questa ripresa da Di Maio, secondo cui le imprese italiane delocalizzano in Romania perché lì trovano un sistema più rigido nel contrasto della corruzione e dell’estorsione: “Abbiamo importato criminalità dalla Romania ma abbiamo esportato capitali – ha detto il pm – Uno scambio non conveniente”. Ora, a parte il fatto che negli stessi indici sulla corruzione percepita sempre citati dai pm la Romania non è messa meglio dell’Italia, è una novità che le imprese scelgano dove investire in base alle leggi contro l’estorsione, com’è una tesi ardita stabilire un nesso casuale tra export di criminali e import di capitali. Le imprese non investono in Romania per il costo del lavoro più basso e per la pressione fiscale e contributiva più contenuta, ma per non pagare il pizzo, che quindi avrebbe un peso maggiore di tutto il resto.
L’elogio del sistema giudiziario rumeno, come prima causa degli investimenti esteri, non è l’unica cosa bizzarra detta da Ardita nei pochi minuti d’intervista al Casaleggio Day. Il pm, che evidentemente ambisce a riscrivere i manuali di economia, ha sostenuto che gli Stati Uniti sono usciti dalla più profonda crisi dopo Grande depressione del ‘29 grazie alle leggi anti corruzione di Barack Obama. Una spiegazione abbastanza semplicistica ma comunque innovativa, sia dell’origine della Grande recessione sia dell’uscita dalla crisi, che se dimostrata potrà valere il Nobel per l’economia. Sorprende però che un magistrato così attento ai fenomeni corruttivi continui a diffondere la bufala dei 60 miliardi di corruzione: “La Corte dei conti, un organo autorevolissimo, sostiene che la corruzione in Italia è pari a 60 miliardi”. Per sapere che si tratta di una balla, ad Ardita sarebbe bastato leggere il penultimo libro di Piercamillo Davigo: “Negli ultimi 25 anni le discussioni sulla corruzione sono state, il più delle volte, superficiali e generiche – scrive Davigo ne “Il sistema della corruzione” – Per dirne una, si sente ogni tanto citare la cifra di 60 miliardi di euro l’anno quale costo della corruzione, attribuendo tale valutazione alla Corte dei conti, istituto che non ha mai azzardato tale ipotesi”. Ardita non deve risentirsi troppo del rimprovero di Davigo, perché in questi 25 anni lo stesso presidente dell’Anm è stato uno dei megafoni della bufala e delle discussioni superficiali e generiche: “Secondo calcoli della Corte dei conti la corruzione costa all’erario 60 miliardi di euro l’anno”, scriveva Davigo nel 2012 nel libro “Processo all’italiana”. Poi l’ex pm del pool di Mani pulite, dopo i numerosi articoli di diversi giornalisti si è corretto, mentre Ardita è rimasto a un’edizione vecchia di qualche anno del verbo davighiano.
Il problema dell’erede di Davigo, e qui si vede la differenza tra l’allievo e il maestro, è che le bufale di Ardita sono clamorose e generiche, mentre quelle dell’ex presidente dell’Anm sono più contenute e specifiche. Così le prime attirano di più l’attenzione di uno scettico, mentre le seconde sembrano verosimili. Un esempio è come viene raccontato il grande classico dell’iperproduttività delle toghe italiane: “La Cepej, una commissione indipendente – ha detto Ardita alla platea grillina – spiega che i magistrati italiani sono i più produttivi d’Europa”. Un’affermazione clamorosa, che spinge a controllare e quindi verificare che si tratta di una bubbola: la Cepej non ha mai detto una cosa del genere, anzi nel suo rapporto spiega che con i dati disomogenei in suo possesso non si possono fare classifiche. La classe di Davigo invece è quella di essere specifico e puntuale nella bufala: “Secondo la Cepej i giudici italiani lavorano il doppio dei francesi e il quadruplo dei tedeschi”. Ardita è agli inizi, conosce le bufale ma non le sa raccontare come Davigo. Il “fuoriclasse” è ancora lui.