L'ingiusto processo
Sempre più lunghi, pazzotici, in balìa dei pm. Ecco perché l’ultimo progetto di riforma del sistema penale evita di mettere mano alle vere storture del sistema
Sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere. O viceversa. Dal 10 al 14 aprile nel settore penale resta bloccata qualsiasi attività giudiziaria perché l’Unione camere penali ha deliberato l’astensione dalle udienze. Per la sacrosanta protesta contro un Disegno di legge in materia penale passato in Senato con il ricorso al voto di fiducia – cioè senza nessun adeguato dibattito parlamentare. E per denunciare che il Ddl – al riparo da qualsiasi discussione – ha quasi generalizzato il processo a distanza nei confronti degli imputati detenuti per reati che non siano bagatellari, con buona pace per presenza e assistenza difensiva concentrate e dirette nonché per il principio di immediatezza e centralità della dialettica dibattimentale. Il Ddl, per il resto, si limita ancora una volta ai soliti pannicelli caldi senza arrivare al “dunque”, ossia senza affrontare i veri problemi: 1) la ragionevole durata del processo (art. 111 della Costituzione), senza la quale, tra l’altro, la sospensione dei termini di prescrizione dopo le sentenze di primo e secondo grado – pur condivisibile – appare a molti addetti un ampliamento dei cimiteri anziché un premuroso incremento degli ospedali ; 2) l’irrinunciabile centralità del dibattimento e non più delle indagini – indagini non solo preliminari ma sovente di polizia e basta, per via di quel cinico “principio di non dispersione dei mezzi di prova” che nel diritto vivente fa realisticamente conto dell’impossibilità di acquisire le prove dopo anni dal fatto – per un processo che si declama accusatorio ma che per ora è e mostra di restare più pericolosamente inquisitorio di prima; 3) l’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 della Costituzione), ormai troppo spesso menzionata solo come inverecondo alibi o per scherzare; 4) l’impugnabilità di sentenze assolutorie da parte del pm per far dichiarare l’interdizione di coloro che sono stati assolti, un pm che tra l’incontentabile e l’irragionevole non raramente insiste per una condanna al di là di ogni ragionevole dubbio (art. 533 codice di procedura penale).
Il Ddl non parla dell'unicità indifferenziata delle carriere giudicanti e requirenti, madre di tutte le disfunzioni giudiziarie
Ma soprattutto il Ddl non fa un cenno all’unicità indifferenziata delle carriere giudicanti e requirenti, madre di tutte le disfunzioni giudiziarie, dei processi eterni e inconcludenti, delle guerre ai fenomeni sociopolitici più che ai singoli delinquenti, degli squilibri tra verificazione e falsificazione e tra accusa e difesa, dei non rari massacri giudiziari conclusi con un flop. Quell’unicità che da noi spesso consente di vedere – unico paese al mondo tra quelli che hanno adottato il processo accusatorio – arbitro e arbitrato operare allegramente a braccetto (con i tanti ausiliari di contorno ) quali tutori esclusivi di tutto ciò che è bene e giusto, alla faccia delle altre parti. Appiattiti l’uno sull’altro come pesci in barile (chi sopra, chi sotto?) in quanto avvinti da un leale rapporto di sana colleganza, da cartelle Word condivise, da solidarietà di appartenenza a uno stesso sistema, con modalità di ingresso e di carriera e di autogoverno assolutamente identiche.
Sono preoccupazioni che attengono non solo alle garanzie ma anche alla qualità del prodotto giudiziario, che troppo di frequente si rivela – e non penso solo a Consip, Mafia Capitale, Trattativa, concorsi esterni i più vari – in un primo tempo opinabile e divisivo e alla fine dei conti velleitario e basta. Ormai è diventata opinione affatto comune: solo chi per le ragioni più varie vuol fare lo gnorri può restare impassibile in presenza della sperimentata insufficienza di una professionalità indifferenziata di pandettisti universitari laddove sarebbero necessari, come in tutti i campi, approcci rigorosamente specialistici. Visto che il mondo è sempre più globalizzato e complesso, quantomeno in relazione sia ad attività terroristiche folli e terribili e diffuse oltre qualsiasi confine, sia a criminalità organizzata e delinquenza informatico-finanziaria sempre sovranazionali, aggiornate, affinate e per questo continuamente mutanti. Ecco perché oggi non può che fare infinita tenerezza il magistrato che nel corso della vita saltabecca disinvoltamente tra ruoli requirenti e giudicanti, laddove nel gioco delle parti occorrerebbero – da decenni se ne sono accorti in tutto il resto del pianeta, dove motivatamente si critica il nostro sistema – da una parte un pm tendenzialmente sprovincializzato, indipendente segugio di carriera, collegato con le reti internazionali e sempre aggiornato sia tecnologicamente sia criminologicamente e, dall’altra, un giudice “terzo” di/per carriera, professionalmente sereno ed equidistante sul suo alto scranno, culturalmente non suggestionabile e al di sopra delle parti in causa.
Il Ddl su tutto ciò tace, come tacciono stampa politica e istituzioni. Ma per tutte queste ragioni l’Unione camere penali, comprensibilmente esasperata da tale persistente silenzio, si è vista costretta ad attivarsi per una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare – pare che verrà depositata il 6 maggio prossimo – che, in linea con quanto disposto dall’art. 111 della Carta sul giusto processo, sancisca ulteriormente l’imparziale terzietà del giudicante attraverso una netta separazione delle carriere, con distinti Csm a tutela dell’indipendenza di entrambe e distinti concorsi di accesso.
La lentezza della giustizia è sempre perniciosa perché una risposta dopo anni rappresenta solo negazione di giustizia
A proposito di indagini e di media. E’ noto che le parole, quando vengono ripetute e straripetute, con il passar del tempo s’annacquano e si divarica nella nebbia il rapporto significante-significato. Oggi sono tutti d’accordo sull’imperante centralità delle indagini preliminari e forse anche sulla loro perniciosità. Tutti d’accordo che il processo mediatico sostituisce spesso quello ordinario. Ma cosa vuol dire esattamente tutto ciò e quali ne sono le conseguenze?
Rispondo a me stesso. Il processo mediatico irresponsabilmente divampa – e dopo poco si spegne, come fuoco di paglia ma dopo aver bruciato per sempre gli interessati – da una falla del segreto investigativo e, dunque, siccome è costola dell’ipotesi accusatoria, senza che sia possibile alcun controllo di fatto viene a sostituire la presunzione di non colpevolezza dell’art. 27 della Costituzione, con un’antitetica presunzione di colpevolezza. Poi sappiamo tutti come può andare a finire: il titolone mattutino e la forza delle immagini dei talk show. Seguono poi indagini freneticamente mediatizzate e pressione pubblica perché si individui e si mandi al rogo un colpevole. Si consolida man mano un’opinione pubblica tendenzialmente colpevolista, opinione pubblica che per il suo solo esistere può pesare, suggestionare, fare pressione e così ostacolare una piena imparzialità di chi dovrà giudicare. Il francobollino in ultima pagina dopo anni darà notizia dell’assoluzione eventualmente sopravvenuta.
E cosa vuol dire esattamente centralità delle indagini preliminari? (“Preliminari di polizia” sono solito aggiungere, visto che la gran parte delle indagini viene svolto dalla polizia giudiziaria su sua iniziativa –artt. 347, 348 cpp, o su delega art. 370 cpp – tanto che non raramente l’indagato si trova in carcere o a giudizio senza che il pm lo abbia mai visto o ci abbia mai parlato). Vuol dire che le prove – che dovrebbero essere formate in dibattimento, a ragionevole distanza di tempo dal fatto, sotto il controllo dialettico delle parti – vengono in realtà formate dagli investigatori alle spalle dei soggetti interessati. Ohibò, ma non si era sempre detto che il vigente codice accusatorio diffidando delle indagini le aveva relegate al primo e più basso scalino del procedimento, brevi e contenute al minimo necessario per decidere se archiviare oppure fare il processo! Sì, è vero. Però sostengono che il procedimento sia troppo lento per poter pensare seriamente di formare e acquisire le prove in dibattimento, ossia alla presenza dei difensori, perché i tanti anni trascorsi dalla consumazione del reato non possono non aver usurato ogni ricordo. E raccomandano di star comunque sereni visto che, per via di codesta usura, si può infilare nel fascicolo del dibattimento del giudice tutto quello che il pm ha nel suo fascicolo di indagini; proprio tutto, perché il diritto vivente per fortuna – dicono – ha individuato il principio di non dispersione dei mezzi di prova, “il principio del norcino”, lo chiama qualcuno, perché non si butta via nulla.
Il sacrosanto sciopero dell'Unione delle camere penali e la proposta di legge costituzionale sul giusto processo (art. 111 Cost.)
A questo punto si impone un’altra riflessione su cosa siano e in cosa consistano queste benedette indagini di cui il codice accusatorio diffidava/diffida e che, ciononostante, sono divenute inaspettatamente centrali, proprio il cuore pulsante del procedimento. Non dovrebbero sussistere dubbi sulla risposta: al di là dei casi di flagranza e di prove oculari o documentali, per ricostruire l’evento all’investigatore non resta che indagare a 360°, e scegliere la direziona giusta. E poi risalire lungo i rami degli accadimenti tentando sempre di indovinare la diramazione giusta, perché se si imbocca quella sbagliata è finita. La fase delle indagini, insomma, è costituita da una sequenza di microdecisioni, di valutazioni su attendibilità, credibilità, ragionevolezza e significatività di qualsiasi elemento indiziario al fine di imbroccare il verso giusto. Sequenza che in progressione costituisce un percorso investigativo fitto di tessere come un mosaico. Fase delicatissima che apre e segna – quasi sempre definitivamente – la strada del procedimento e spesso anche al di fuori di qualsiasi controllo difensivo – da ciò la diffidenza del legislatore e la gravità della vigente centralità. Perché ciascuna di codeste scelte e decisioni non è raziocinio e basta. Scientificamente assodato, ciascuna di codeste scelte/decisioni è come un grumo, o meglio un guscio – a dire il vero le neuroscienze (ne parla diffusamente un recente e informatissimo libro, «Il giudice emotivo» di Antonio Forza, Giulia Menegon, Rino Rumiati) non hanno fatto altro che sperimentare e confermare oggi quello avevano intuito e andavano dicendo nei secoli scorsi Mario Pagano, Altavilla, Carnelutti, De Marsico, Antolisei, Leone, Pannain e tanti altri – contenente in compenetrato connubio sia il nocciolo dell’istinto, quale corredo di sopravvivenza implacabilmente selezionato dall’evoluzione contro chi reagiva solo dopo aver riflettuto, sia il nocciolo della razionalità . Di solito l’istinto opera in prima battuta. Il primo è denso di impressioni, stereotipi, pre-giudizi, antipatie e simpatie (anche politiche, perché no?), innamoramenti di ipotesi. Il secondo è legato alla capacità professionale – al riguardo formazione e informazione necessiterebbero ma sovente latitano – di verifica critica delle intuizioni e dei pre-giudizi vissuti. Il controllo di codesti intimi rapporti, delle reciproche influenze e delle conseguenti dinamiche sarebbe ben consentito nell’ambito di quella rituale dialettica dibattimentale che nei fatti non c’è, è fisiologico quanto alle decisioni interlocutorie e conclusive dei giudicanti, è impedito durante le indagini – segrete ed il più delle volte non garantite dalla presenza difensiva – proprio perché nel loro ambito, secondo codice, non dovrebbero essere formate o acquisite prove di alcun genere. E così spesso i giudicanti debbono accontentarsi della pappa scodellata.
In conclusione il procedimento penale poggia oggi, spesso e pericolosamente, su indagini preliminari di polizia non controllate né controllabili nel loro nascere e nel loro progredire. Provare per credere. Un giudicante ammise dopo anni che le vicissitudini giudiziarie di Enzo Tortora erano state determinate anche dal suo odioso e irrispettoso comportamento processuale. Quasi nessuna delle vittime di clamorosi errori giudiziari ha sembianze angeliche, quasi tutti musi grifagni oppure occhi inquietanti di ghiaccio, oppure testardamente non smettono di protestarsi innocenti. Pacciani era un pregiudicato vistosamente sporco brutto e cattivo e venne assolto dai fatti del “mostro di Firenze” poco prima che morisse. Il presidente Corrado Carnevale era presuntuoso e polemico da non credere, venne messo alla berlina perché – anche lui irrispettoso e poco angelico – aveva osato non seguire il mainstream del momento.
Il procedimento penale si basa su indagini preliminari di polizia non controllate né controllabili nel loro nascere e nel loro progredire
Se è centrale la fase delle indagini, allora non lo è la fase dibattimentale, e ciò calpesta il nostro codice accusatorio. Quel “al di là di ogni ragionevole dubbio” dovrebbe annichilire qualsiasi dubbio non ragionevole, cioè istintivo. Innalzare pene che non avranno mai esecuzione equivale – come celiava un mio vecchio procuratore – a pratica onanistica: se esistono queste disfunzioni ci sarà una ragione da individuare ed eliminare. Amo abbandonarmi all’ottimismo della ragione.
Credo che occorrerebbe protestare a voce sempre più alta a tutela della dignità di tutti, denunciando e proponendo riforme risolutive in luogo dei soliti pannicelli. Riproponendo innanzitutto la separazione delle carriere, e poi un esercizio dell’azione penale non più obbligatorio, ma mirato diacronicamente solo sui fatti di maggiore pericolosità, concretamente perseguibili in quel dato momento secondo periodiche indicazioni parlamentari. E’ di solare evidenza che nel nostro paese l’esercizio indiscriminato dell’azione penale ingolfa e paralizza le aule: l’art. 112 della Costituzione obbliga alle indagini per qualsiasi bagatella denunciata, e la massa dei conseguenti processi risulta incompatibile con gli accidentati e annosi percorsi in cui da sempre si snoda la sonnacchiosa lentezza dei bradiprocedimenti italiani. Esiziale paludosa lentezza – sia chiaro – determinata non certo da infingardaggine degli addetti ma da sottodimensionamento delle risorse strumentali e umane soprattutto amministrative; da quella comunanza di carriera – ammetto, ne parlo fino alla noia ma spero ne valga la pena – che impedisce o limita un’efficiente specializzazione sia dei giudicanti che dei pm requirenti. E poi un carico di lavoro divenuto pressoché ingovernabile per l’abnorme litigiosità degli utenti, per le farraginose regole processuali, per il suo continuo accumularsi nel tempo; infine da un costume giudiziario non raramente sensibilizzato più agli onori della carica che agli oneri legati alla produzione di un servizio, essenziale e delicatissimo.
E poi, quale altra proposta? I fascicoli penali vanno digitalizzati, perché solo così potrà avere ingresso il necessario controllo di gestione, l’accountibility di qualsiasi impresa o amministrazione che intenda ottimizzare il lavoro; con uno scadenzario digitale che, allertando sia il magistrato responsabile sia il superiore ufficio giudiziario deputato alla vigilanza, impedisca ed eviti di complicare qualsiasi stagnazione dei fascicoli – e delle sorti umane – nella polvere degli armadi.
È ragionevole sperare che di tutto ciò si avveri almeno qualcosa? Che l’Italia provveda a una riforma strutturale dopo essersi adontata per sentirsi continuamente considerato dalla giurisprudenza Cedu, per via della lentezza del sistema giustizia, “incapace sia di prevenire future violazioni sia di porre fine a quelle in corso”? La lentezza della giustizia è sempre perniciosa perché una risposta dopo anni rappresenta solo negazione di giustizia. Quando poi diventa tradizione educa a pazienza e sopportazione e questo è un altro male , perché così nessuno vibra di sdegno o si scandalizza più di tanto. E nulla cambia. Nessuno alza la voce se l’udienza viene rinviata di anni nonostante le parti siano ottuagenarie (non è ipotesi, accade). Né batte i pugni sul tavolo se nutrite squadre, giudiziarie e di polizia, si impegnano all’infinito nello scrivere la storia di un’ipotizzata trattativa anziché tentare di capire dove/come spariscono nel nulla, ogni giorno – sottolineo, ogni giorno – e in barba alla Convenzione di New York 1989 resa esecutiva in Italia con legge n. 176 del 1991, una trentina di minori stranieri non accompagnati. Né protesta più di tanto se quello sconsiderato giudice nomina per te un amministratore di sostegno o un tutore provvisorio di cui pensi di non aver bisogno perché sei vispo come un grillo e lo fa in via provvisoria e con efficacia immediata – come non bastasse lo fa senza nominare un curatore speciale che ti rappresenti autonomamente nel procedimento, attaccandosi al pretesto che c’è il pm che seppure genericamente vigilerebbe dall’alto – il che vuol dire limitando la tua capacità di agire, con il fatto compiuto di un provvedimento non impugnabile in quanto formalmente provvisorio (non è ipotesi, accade). Né se ti sequestrano l’azienda per i sospetti evidenziati solo in un’annotazione di polizia. Né se vieni assolto dopo una spada di Damocle durata oltre vent’anni. Né se ti accorgi e pensi che, se le cose non cambiano, in barba allo strombazzato processo accusatorio, continuerà a esistere solo un disperato e pericoloso affaccendarsi giudiziario in nome di emergenza e sicurezza, con misure di prevenzione spesso applicate sulla sola base di meri sospetti, con misure di sicurezza anticipate secondo la previsione dell’art. 206 del Codice penale, con misure cautelari eccessive e applicazioni provvisorie e provvedimenti d’urgenza con efficacia immediata, con ectoplasmi di imputazioni di concorso esterno in concorso interno, e chi più ne ha più ne metta. Tutto in via provvisoria, quasi niente in via definitiva.
Resta l’interrogativo, assolutamente retorico, di quanto sia giusto che la fragile precarietà della condizione umana, già compromessa da ragioni naturali, debba sopportare un suo aggravamento per ragioni artificiali quale una giustizia approssimativa sgangherata ansiogena e qualche volta perfino autoreferenziale che – sicuramente al di là delle intenzioni – può crocifiggerti secondo l’uzzolo del mattino.
Dà qualche speranza di cambiamento il fatto che codesta precarietà giudiziaria sia stata ormai sperimentata, sulla propria pelle, un po’ da tutte le aree politiche. Ma soprattutto il fatto che, assieme a tanti altri, la Fondazione Einaudi, l’Unione camere penali e l’associazione Fino a prova contraria di Annalisa Chirico si stiano autorevolmente battendo affinché il processo diventi giusto, anzi smetta di essere ingiusto.