Il sospetto di "mafiosità" vale sempre la gogna. Il caso Giovanardi
Indagato per il suo lavoro di politico. E la commissione antimafia gli chiede di autosospendersi: basta il “fumus”
Istituzioni rimaste vive per secoli a stento si assopiscono; e, con poco, si ridestano. Anche l’Inquisizione a lungo è apparsa quiescente. Circa un mese fa, la procura Antimafia di Bologna ha notificato al senatore Giovanardi di essere sottoposto a indagine preliminare. Il reato contestato, oltre alla rivelazione di segreti di ufficio, è “Violenza o minaccia a corpo politico, amministrativo o giudiziario”; con l’aggravante di avere inteso favorire interessi di tipo mafioso. Curiosamente, lo stesso della cosiddetta trattativa Stato-mafia. Ieri, l’ufficio di presidenza della commissione Antimafia, di cui Giovanardi è componente, ha formulato “un invito” a “valutare l’opportunità politica” di “autosospendersi”. Per la Procura, sarebbe stato troppo zelante nel contestare, da parlamentare, due istituti giuridici: l’informativa antimafia e la white list. Gli uffici pubblici a cui rivolgeva richieste variamente vibranti si sarebbero sentiti minacciati. Vediamo. Sono entrambi provvedimenti del prefetto, con cui si stabilisce “l’affidabilità” etico-sociale di un’impresa. Secondo il consolidato indirizzo del Consiglio di stato, “gli elementi posti a base dell’informativa possono essere anche non penalmente rilevanti o non costituire oggetto di procedimenti o processi penali o, addirittura e per converso, possono essere già stati oggetto del giudizio penale, con esito di proscioglimento o di assoluzione”. Criteri, in effetti, di rara ambiguità.
Una volta raggiunta da un simile provvedimento, che impedisce di essere o rimanere fornitore di una qualsiasi pubblica amministrazione e, perciò, di poter figurare nella white list, non c’è azienda che possa reggere: specialmente se attiva in un settore a prevalente domanda pubblica, come quello edilizio. Così, Giovanardi fa quello che crede giusto. Comincia nel marzo del 2013. E da lì prosegue: tredici interpellanze parlamentari. E parla, sente, telefona, scrive: si muove. Anche presso uffici pubblici locali, prefetture in primo luogo. E’ un rappresentante politico del territorio. Fra le persone che incontra ci sono Augusto Bianchini, suo figlio e la moglie. La Bianchini Costruzioni, nel giugno 2013 era stata colpita da informativa antimafia. Tutti e tre, il 28 gennaio 2015, in seno all’operazione Aemilia, vengono sottoposti il primo a custodia cautelare, gli altri, nel domicilio, indiziati di contiguità a un’associazione a delinquere calabrese, famiglia criminosa Grande Aracri, di Cutro. E’ in corso di svolgimento un processo, anche su questa accusa. L’uomo politico afferma di aver sospeso le sue attività istituzionali a loro sostegno, appena conosciuta l’indagine. Ma il punto è un altro. E’ il ridestato germe inquisitorio. Si scrutano categorie. La condotta di ogni giorno, e i suoi criteri di giudizio, non esistono più. L’Espresso, in chiave rivelativa, può allora informare che il parlamentare avrebbe saputo, già prima dell’arresto, dei loro “rapporti con i calabresi”. C’è una conversazione dell’ottobre 2014, singolarmente videoripresa da Bianchini figlio, e agli atti del processo Aemilia. Giovanardi ammonisce gli interlocutori che lui può sostenere la battaglia di principio sull’informativa, solo “se siete candidi come agnellini”.
Il senatore continua a domandare, e ne viene solo un confuso e generico riferimento a una fattura per un’operazione inesistente emessa dai Bianchini, in favore di una persona allora non sospetta, tale Giglio, e solo dopo coinvolta nell’operazione Aemilia. Quanta buona o malafede ne risulti, ognuno lo potrebbe agevolmente rilevare. C’è però l’obbligo della sfiducia, il buio dietro la luce. A corredo della “violenza o minaccia”, è stata fatta campeggiare un’altra “scena”: in cui Giovanardi, mentre, nella sua prospettiva, stava rappresentando la rovina di un nucleo familiare, avrebbe detto che, al posto di Bianchini, lui avrebbe sparato a tutti, più o meno, aggiungendo: “Quel prefetto è un coniglio, chiederò la sua testa”. Lo “sparare a tutti” è fraseologia comunemente iperbolica; la retorica patibolare traduce, con piega più stentorea, l’oggetto dei suoi atti in Senato (“la Prefettura… senza attenersi a fatti concreti, ma solo a presunzioni”; “l’autorità amministrativa insiste in questo incomprensibile atteggiamento”). Tuttavia, l’assemblaggio è offerto obliquamente: ad aduggiare la figura, a incupire lo sguardo.
L’impressione complessiva è che si vadano formando limiti invalicabili, orientamenti di pensiero all’insegna di una Nuova Ortodossia. Torna a farsi strada pure un certo biologismo ermeneutico. Ancora il Consiglio di stato sembra voler spiegare che ogni più vasto criterio a sostegno di un’informativa si giustifica perch la “mafiosità” di un’impresa si può trasmettere a un’altra per “contagio”. In una delle due ordinanze urgenti su cui fondò i suoi interventi, Il prefetto di Ferro voluto dal Duce, Cesare Mori, previde che “per strappare di mano alla mafia il dominio della proprietà terriera e la gestione delle aziende agricole”, queste potessero essere dichiarate “centro infetto”. Ignaro, notava lo storico Christopher Duggan, già caro a Sciascia, che “i criteri per dichiarare infetta una proprietà erano molto ampi”.
Oggi c’è il Tar. Ma fra il presente e il passato contano pure i sostrati culturali: coriacei, e tendenzialmente insensibili alle marche da bollo. Nel gennaio 2014, la procura nazionale Antimafia, nella sua relazione annuale sulle attività svolte, quanto alle province di Modena, Reggio Emilia, Parma e Piacenza, lodava le iniziative prefettizie, “particolarmente efficaci” contro le “infiltrazioni che immancabilmente si sono presentate” (circa 2 milioni di abitanti; circa 200 le persone coinvolte nei vari stralci del processo Aemilia; finora, in uno di essi, 71 giudicate in primo grado, 12 assolte). E stigmatizzava “una certa politica” (ancora una categoria) incapace di intendere che l’infiltrazione, per gli emiliani, più che tradursi in “un’occupazione militare”, riguardava “le loro menti”. Le interdittive, infatti, si vogliono essenzialmente volte alla “formazione di un sentimento… di repulsione”, per meglio contrastare “la erosione della legalità a tutto favore della logica del profitto”. Sicché si rilevava come “non inutile sarebbe una maggiore cautela nel disapprovare provvedimenti”. Nel contesto dato, disapprovare “è un imperdonabile errore”, si ammoniva. Ma, a chiudere, cadeva comunque la cupa gravezza del sospetto: “quando di errore si tratti”.
Tutto ciò sembrerebbe richiamare una rieducazione di massa, presidiata dal potere coercitivo. Ma deve essere un’altra cosa. Non c’è da temere.