Giustizia giusta, un Falcone da ovazione
Servono prove, non chiacchiere. Il giudice raccontato dagli atti desecretati
E’ il 15 ottobre del 1991, sono le 9 e 30, siamo a Roma, nella sede del Consiglio superiore della magistratura, e di fronte alla prima commissione del Csm c’è un Giovanni Falcone in forma, tonico, che parla, ribatte, accusa, si difende, si sfoga e che in pochi minuti mette insieme una serie di considerazioni importanti che non a caso, in questi giorni di grandi celebrazioni, a 25 anni dalla strage di Capaci, sono state tralasciate sulle pagine dei grandi giornali. Sono una pagina storica favolosa. Un manifesto di garantismo. Un esempio, non a caso rimosso, di cosa significa giudicare facendosi guidare dalle prove e non dal pettegolezzo.
I documenti sono stati desecretati sette giorni fa, dopo venticinque anni, e riguardano un passaggio importante della vita di Falcone. Un mese prima, il 5 e l’11 settembre, al Consiglio superiore della magistratura erano arrivati due esposti firmati da quattro feroci professionisti dell’antimafia, contro i quali ha battagliato a lungo Giovanni Falcone: l’avvocato Giuseppe Zupo, il professor Leoluca Orlando, il professor Alfredo Galasso e Carmine Mancuso. Gli esposti contenevano critiche micidiali contro Falcone e i quattro ricorrenti, che non perdonavano a Falcone la sua autonomia di pensiero, accusavano di fatto il giudice di non aver adeguatamente valorizzato, nei processi per i cosiddetti “omicidi politici” (Reina, Mattarella, La Torre e Dalla Chiesa), elementi documentali depositati in filoni d’indagine in precedenza già avviati dal procuratore Costa e già coltivati dal consigliere istruttore Chinnici. Senso dell’accusa: Falcone non avrebbe attribuito la giusta valenza alle dichiarazioni rese da alcuni collaboratori di giustizia (Pellegriti e Calderone) che avrebbero potuto aiutare a combattere con più efficacia Cosa Nostra.
In quelle ore, di fatto, Giovanni Falcone era chiamato, come ricorda oggi l’attuale consigliere del Csm Antonio Ardituro, “a discolparsi da accuse di avere tenuto ‘le prove nei cassetti’ o, comunque ‘di aver fatto male le indagini’”. Abbiamo letto le 142 pagine appena desecretate e abbiamo capito perfettamente perché i grandi giornali italiani si sono dimenticati di mettere il naso in quella storia e in quelle parole, che rilette oggi somigliano a uno straordinario atto di accusa contro la repubblica del sospetto. E’ in quel contesto che Falcone denunciò coloro che cercavano “di far politica attraverso il sistema giudiziario”. E’ in quel contesto che Falcone ricordò che è anche compito dei magistrati ricordarsi che “la cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, è l’anticamera del khomeinismo”. Ed è in quell’occasione che Falcone, pochi mesi prima di essere ucciso, mostrò la sua idea di giustizia attraverso alcune frasi che abbiamo estrapolato e che meritano di essere incorniciate.
Falcone attaccò la politicizzazione dell’azione giudiziaria (“Sono convinto non che la via giudiziaria sia una bella scorciatoia per risolvere i problemi politici ma che la presenza dello Stato è fondamentale in una zona per combattere certi fenomeni che, prima che economici e sociali, sono squisitamente fenomeni di pertinenza criminale…”). Ricordò che i magistrati non devono occuparsi dei pettegolezzi ma hanno il dovere di fare attenzione alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, da sottoporre a rigoroso vaglio e riscontro. “A me – disse Falcone – sembra profondamente immorale che si possano avviare delle imputazioni e contestare delle cose nella assoluta aleatorietà del risultato giudiziario. Non si può ragionare: intanto contesto il reato e poi si vede. Perché da queste contestazioni poi derivano conseguenze incalcolabili”.
In questo contesto Falcone fece qualcosa di più e colse l’occasione dell’audizione al Csm per denunciare i metodi perversi utilizzati da alcuni professionisti dell’antimafia che già a quei tempi avevano cominciato a utilizzare la lotta contro la criminalità organizzata (ne sa qualcosa l’attuale sindaco di Palermo?) per avere un tornaconto politico personale. Falcone fu accusato da Leoluca Orlando e compagnia di non aver perseguito con la giusta durezza “il terzo livello della mafia” e rispose a quelle accuse con frasi che non potevano che essere omesse oggi dai nuovi e cialtronissimi professionisti dell’antimafia. “Non esistono vertici politici che possono in qualche modo orientare la politica di Cosa nostra”. E’ vero esattamente il contrario. “Il terzo livello – inteso qual direzione strategica, che è formata da politici, massoni, capitani d’industria ecc … e che sia quella che orienta Cosa nostra – vive solo nella fantasia degli scrittori: non esiste nella pratica”.
Il dialogo tra Falcone e i suoi accusatori andrebbe volantinato nelle scuole di magistratura e nelle redazioni di alcuni giornali e merita di essere letto con attenzione perché ci dice molto non solo del carattere combattivo, da guerriero, del giudice ucciso venticinque anni fa dalla mafia ma ci dice anche qualcosa di più su un certo modo di intendere la giustizia e su alcuni equivoci storici che oggi sono all’origine del grande cortocircuito con cui deve fare i conti il nostro sistema mediatico e giudiziario. Uno in particolare. Essere garantisti non vuol dire prendere le parti di un sospettato, o voler nascondere “le prove nei cassetti”, ma significa semplicemente prendere le parti di una giustizia giusta e credibile in cui i fatti fino a prova contraria dovrebbero contare più dei sospetti, delle illazioni e dei pettegolezzi. “L’informazione di garanzia – ricordò Falcone in quella straordinaria audizione – non è una coltellata che si può infliggere così, è qualcosa che deve essere utilizzata nell’interesse dell’indiziato”. Chissà se oggi si ricorderà Falcone partendo anche da qui.