L'immobilismo nell'Italia del Tar West
Rendere efficiente significa mercificare. Valorizzare significa brutalizzare. Perché la sentenza con cui il Tar ha bocciato la nomina dei direttori stranieri nei grandi musei è un manifesto ideologico della nuova Repubblica dei mandarini
Di fronte all’incredibile sentenza con cui il Tar del Lazio ha bocciato le nomine di cinque dei venti direttori dei musei di rilevanza nazionale volute due anni fa dal ministero dei Beni culturali, niente stranieri grazie, si potrebbero mettere insieme molti ragionamenti finalizzati a dimostrare l’inutilità assoluta del Tribunale amministrativo regionale. Ricordando i capolavori compiuti negli ultimi anni dai Tar (dalla bocciatura della sospensione governativa del metodo Stamina, allo stop dell’insegnamento in lingua inglese al Politecnico di Milano, fino alla delibera con cui due anni fa a Bologna fu negata l’autorizzazione a benedire le scuole prima delle feste pasquali). E facendo proprie le parole sacrosante messe insieme tre anni fa da Romano Prodi, non dunque un pericoloso liberista reazionario, il quale ammise che “il ricorso al Tar è diventato ormai un comodo e poco costoso strumento di blocco contro ogni decisione che non fa comodo, penetrando in ogni aspetto della vita del paese”. Ma parlare solo del Tar, oggi, è come voler parlare del dito rifiutandosi di parlare della luna. Perché la decisione del Tar è solo un tassello di un mosaico più grande da cui emerge un disegno culturale complessivo che riguarda un tema all’interno del quale si trovano alcuni drammi rimossi del nostro paese. Una giustizia inaffidabile e irriformabile. Una burocrazia asfissiante e logorante. Una tendenza a considerare le innovazioni come pericoli da evitare e non opportunità da cogliere. Una propensione a sfuggire a ogni nuovo criterio di valutazione della burocrazia. Una predisposizione a spacciare per difesa del bene comune quella che in realtà è la difesa di un pregiudizio ideologico o a volte semplicemente di una corporazione.
Il Tar che dice di no a un criterio che permette di adottare eccellenze straniere per valorizzare il patrimonio pubblico italiano (se il Tar del Lazio sapesse che il direttore della National Gallery, a Londra, si chiama Gabriele Finaldi chiederebbe probabilmente una rogatoria per accusare Finaldi di alto tradimento contro la nostra Costituzione) in fondo è parente stretto di un’Italia che negli ultimi anni, solo per stare al mondo della cultura, ha detto alcuni no che meritano di essere ricordati. No, alla Reggia di Caserta, a “un direttore che permanendo nella struttura fino a tarda ora senza che nessuno abbia comunicato e predisposto il servizio per tale permanenza mette a rischio l’intera struttura” (Cgil, Uil, Ugl, 5 marzo 2016). No, a Pompei, a un sovrintendente che ha consentito un’apertura al pubblico straordinaria degli scavi nonostante la convocazione in quelle ore di un’assemblea sindacale e che per questo (27 gennaio 2017) è stato denunciato ai carabinieri da alcune sigle sindacali. No, a Roma, in questi giorni, all’idea, sponsorizzata da cinque premi Oscar tra cui il grande Dante Ferretti, di organizzare al Palatino le repliche del Divo Nerone (e nonostante i permessi ottenuti dalla sovrintendenza, nonostante il nulla osta dato persino dal vicino convento di clausura, a pochi giorni dall’evento una parlamentare di sinistra ha presentato un esposto in procura e un noto storico dell’arte ha accusato gli organizzatori di stuprare il patrimonio pubblico). In questo grande e inquietante mosaico dell’immobilismo italiano, in cui emerge con chiarezza la fisionomia della repubblica dei mandarini, esiste un filo che lega tutte le realtà e le esperienze che abbiamo descritto e che ci permette di tornare nuovamente alla sentenza del Tar.
La valorizzazione del patrimonio del nostro paese diventa “una svendita dei nostri valori”. La lotta contro la burocrazia selvaggia diventa “un attentato alla Costituzione”. Il tentativo di coinvolgere i privati nella gestione del patrimonio pubblico diventa “la testa di ponte della trasformazione dei nostri musei pubblici in facili prede di grandi capitali”. Le parole tra virgolette sono parole importanti che troviamo in una lettera indirizzata il 23 agosto del 2012 all’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e firmata da alcuni “illustri storici dell’arte” (guidati da Salvatore Settis, Carlo Ginzburg, Alberto Asor Rosa, Tomaso Montanari) che negli ultimi anni si sono spesi più degli altri per dimostrare quello che la sentenza del Tar giovedì ha messo nero su bianco: che ogni tentativo di rendere efficiente la gestione del patrimonio pubblico coincide in realtà con un tentativo di mercificare i gioielli del nostro paese.
Nel caso specifico i Settis, i Ginzburg, gli Asor Rosa e i Montanari protestarono contro un decreto che avrebbe permesso di dar vita a una fondazione privata incaricata di gestire la Pinacoteca nazionale di Brera e che avrebbe portato Brera a essere gestita da privati pronti a mettere in cima alle loro esigenze (sic) “criteri di efficienza economica”. “Brera rischia di essere un laboratorio perverso la testa di ponte della trasformazione dei nostri musei pubblici in facili prede di grandi capitali”. E qui torniamo alla sentenza del Tar. Dal punto di vista tecnico, il Tar del Lazio ha bocciato una riforma approvata dal governo Renzi nel 2014 (legge numero 106/2014) che presentava una deroga a un principio previsto all’articolo 38 del decreto legislativo 165 del 2001. Quel decreto stabiliva che “i cittadini degli Stati membri dell’Unione europea e i loro familiari non aventi la cittadinanza di uno stato membro che siano titolari del diritto di soggiorno o del diritto di soggiorno permanente possono accedere ai posti di lavoro presso le amministrazioni pubbliche che non implicano esercizio diretto o indiretto di pubblici poteri, ovvero non attengono alla tutela dell’interesse nazionale”.
Ma il Tar, facendo a pezzi molti principi base della giurisprudenza europea che promuovono in ogni forma la libera circolazione di persone, di merci, di beni e di moneta all’interno dello spazio dell’Unione europea, ha deciso di abrogare quella deroga non solo sulla base di alcune motivazioni tecniche – che come spesso accade al Tar dovrebbero essere (speriamo) ribaltate dal Consiglio di stato – ma anche sulla base di alcune motivazioni di carattere ideologico. E se si arriva in fondo al testo della sentenza 6171/2017 si scoprirà che alla base della scelta del Tar c’è anche la volontà esplicita di applicare un proprio codice morale. “Il perseguimento degli standard internazionali, secondo le chiare intenzioni del legislatore si ottiene – scrivono i magistrati che firmano la sentenza – evidentemente migliorando gli aspetti sostanziali e contenutistici dell’offerta museale italiana, appunto rapportandola e adeguandola agli analoghi servizi offerti dai migliori istituti di altri Paesi (in termini, ad esempio, di ampia fruibilità anche nei giorni festivi o nelle ore serali, di efficienza e rapidità di accesso da parte della platea dei visitatori, di miglioramento del rapporto costi/ricavi, di adeguamento delle strutture e delle risorse umane, ecc.), non certamente con interventi formali e di immagine”. Rendere efficiente significa mercificare. Valorizzare significa brutalizzare. La Repubblica dei mandarini ha i suoi codici e i suoi valori. Solo una buona politica può riequilibrare la repubblica della burocrazia. E chissà se è solo un caso: i mandarini che oggi dicono no a ogni tentativo di riequilibrare la burocrazia della cultura sono gli stessi che il 4 dicembre hanno detto no al tentativo di dare alla politica qualche strumento in più per governare le burocrazie italiane. L’Italia del Tar West, e del sovranismo culturale, in fondo nasce anche così.