Sì, la mafia ha perso
A 25 anni dalla morte di Giovanni Falcone, Cosa nostra è cambiata, la strategia per ridimensionarla ha funzionato ma i nuovi fenomeni dell’antimafia non possono ammetterlo. Perché? Proviamo a spiegarlo
Si è appena attenuata l’eco delle sentite celebrazioni in ricordo di Giovanni Falcone nel venticinquennale della strage di Capaci e tra poco dovremo ricordare l’altrettanto tragica fine di Paolo Borsellino, avvenuta il 19 luglio 1992 in via D’Amelio a Palermo.
L’Italia doverosamente celebra questi suoi eroi e lo fa in particolare additandoli ai giovani perché anche coloro che allora non erano nati o non erano ancora in grado di capire, possano comprendere l’importanza di quel sacrificio che, se ha tolto al nostro Paese due degli uomini migliori di quel tempo, ha segnato anche l’inversione di tendenza nella lotta alla mafia siciliana, che da quella terribile estate ha visto l’inizio del suo progressivo, inarrestabile declino.
La parabola di Cosa nostra è al termine grazie a magistratura e polizia, ma anche perché è stata superata una precisa mentalità
L’ultimo grande contributo offerto alla Patria da questi due magistrati è stato, con il loro sacrificio, quello di sollecitare un corale senso di ripulsa verso “cosa nostra”. Modalità delinquenziale questa che affondava le sue radici in una tipologia di società residuo di altre epoche storiche e frutto di deviazioni criminali che trovavano riscontri e seguito nel corpo sociale di alcuni ambiti territoriali piagati da arretratezza e sottosviluppo.
Allo stupefatto dolore di quei giorni fece seguito una positiva reazione della stragrande maggioranza del popolo italiano che finalmente comprese la globale pericolosità di un fenomeno per tanti anni misconosciuto o sottovalutato, e certo non sempre per considerazioni frutto di oneste motivazioni.
Le vicende legate a una mafia al tramonto ci hanno lasciato un'eredità criminale più difficile da combattere: la sua cultura
Le morti di altri grandi servitori dello Stato quali Rocco Chinnici, Aldo Costa, Giuseppe Russo, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Boris Giuliano, Antonino Cassarà e Pio La Torre, non erano riuscite a sollevare un corale moto di ribellione verso l’organizzazione criminale, forse perché diluite nel tempo e accadute all’apparenza senza una logica stringente che, invece, le indagini successive hanno dimostrato come le spiegasse e collegasse alla complessiva attività delle “famiglie” mafiose. Quelle di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, al contrario, erano state chiaramente preannunciate dagli avvenimenti che le avevano di poco precedute e ne erano la naturale conseguenza. Così esse rappresentarono una sfida clamorosa allo Stato, considerato nella sua interezza, e tale che non la si potesse più ignorare ed accettare.
Da quei giorni del 1992 è iniziata la risposta delle Istituzioni che progressivamente si è fatta sempre più concreta ed articolata, coinvolgendo anche le altre forme di criminalità mafiosa presenti in Italia. Non è stata più una lotta di pochi contro il crimine, ma il corale rifiuto della nostra società verso una banda di assassini che dovevano assolutamente essere messi nella condizione di non nuocere più.
Dopo venticinque anni da quel tragico 23 maggio si può dire che “cosa nostra”, intesa come organizzazione strutturata, non rappresenta più una minaccia di valenza globale. Certo sono ancora presenti manifestazioni isolate o spezzoni di antiche “famiglie” in grado di svolgere su ambiti ristretti di territorio un certo condizionamento criminale, che però non riesce più ad assumere le dimensioni che possano venire catalogate come espressioni complesse di criminalità organizzata.
Le tesi negazioniste sono utili per tenere in piedi polemiche speciose, necessarie per tesi che servono gli interessi personali di chi le sostiene
La stessa latitanza dell’ultimo dei suoi capi riconosciuti, Matteo Messina Denaro, ora più un uomo alla macchia che un “padrino” operativo, e il recente omicidio di Giuseppe Dainotti, una vendetta per antichi sgarbi eseguita nell’immediatezza della sua scarcerazione, sono la dimostrazione di una realtà ancora in grado di svolgere una settoriale attività delinquenziale, senza però orizzonti e finalità di prospettiva.
La parabola di “cosa nostra” è al termine, e non solo per l’azione combinata di Magistratura e Forze di Polizia, supportate da un efficace quadro normativo via via reso sempre più aderente, che ne ha fiaccato l’organizzazione e neutralizzato i suoi aderenti, ma perchè soprattutto è stata superata quel tipo di mentalità ed organizzazione sociale, ancora presente sino negli anni recenti del secondo dopoguerra in determinate aree del nostro territorio, che ne rendeva possibile la sopravvivenza, ponendosi come un supporto ambientale al suo agire.
In pratica è stato soprattutto il cambiamento della società di riferimento, frutto di naturale evoluzione e di una informazione capillare e diffusa che ha raggiunto ogni ambito del nostro territorio e ne ha modificato comportamenti e tendenze, che sta sanzionando la fine dell’organizzazione, in particolare nell’area dove si era formata. “Cosa nostra” sta morendo perché sono venuti meno i presupposti culturali ed ambientali per la sua esistenza e i suoi ultimi epigoni operano e si pongono ormai come normali criminali.
Giovanni Falcone lo aveva previsto quando affermò che, come tutte le manifestazioni umane, anche la mafia, dopo un inizio ed uno sviluppo, avrebbe avuto la sua fine, e oggi questo si sta verificando.
L’organizzazione, compresa nell’ambito della definizione di “mafia siciliana”, il cui contrasto ha richiesto anche il varo di un corpus iuris specifico, si sta trasformando in una criminalità comune sempre pericolosa, ma certamente più semplice da combattere perché privata delle radici su cui fondava la sua forza.
Come tutti i fenomeni che impegnano per il loro contrasto le strutture operative di una nazione, si veda ad esempio il periodo del nostro terrorismo interno, il loro declino lascia sempre dietro, oltre al dolore incancellabile di chi ha subito danni diretti o lutti irreparabili, una serie diffusa di valutazioni di natura ideologica e politica, ma anche un complesso di crisi d’identità legate a vari ambienti che vedono venire meno remunerative “rendite di posizione”.
Se sono sempre comprensibili sollecitazioni o richieste provenienti da chi chiede ogni ulteriore accertamento per conoscere anche i minuti aspetti delle vicende che hanno causato la morte di propri cari, meno accettabili appaiono le esternazioni di chi, anche oggi, interessato per motivi professionali o di bottega, insiste nel delineare ipotesi vaghe e scenari nebulosi non supportati da elementi di fatto appena logici e riscontrabili, finalizzati solo a riproporre continuamente tesi precostituite che in taluni casi appaiono come chiari tentativi volti a mantenere posizioni di prestigio nei propri ambiti professionali.
Le antiche "famiglie" sono in grado di svolgere su ambiti ristretti di territorio un certo condizionamento criminale. Le dimensioni contano
Il poeta, a suo tempo, con incisiva crudezza, definì queste attività come tentativi mirati a raccogliere “quattro paghe per il lesso”.
Forse dopo venticinque anni, per analisi connesse alle vicende di “cosa nostra”, è venuto il momento di considerare solo quelle ricostruzioni dei fatti che si appoggiano a dati riscontrati o a documenti, le uniche che dovrebbero avere la dignità di venire prese in esame, e si abbandonino quelle che, invece, alla luce di tante inchieste ed attività investigative protratte negli anni, sono risultate infondate o assolutamente non dimostrabili. Utili però, queste ultime, a tenere in piedi polemiche speciose, necessarie per tesi che servono esclusivamente gli interessi personali di chi le sostiene. In sintesi le accuse si avanzano con i documenti e non con ipotesi campate in aria finalizzate solo a fare sopravvivere determinate posizioni di comodo.
Nell’esporre queste considerazioni non si vuole sostenere che il problema della criminalità organizzata di tipo mafioso, con riferimento specifico a quella di origine siciliana, sia un ricordo del passato e che questa difficile prova sia stata superata completamente dall’Italia. Le cose non stanno esattamente così.
Le vicende legate ad una tipologia di mafia operativa ormai al tramonto, ci hanno lasciato un’eredità criminale ancora più difficile da combattere, e cioè la sua cultura. Si tratta nella fattispecie del “sentire mafioso”, approccio più subdolo di quel particolare modo di essere perché non si esprime con manifestazioni platealmente criminali, ma consiste in una visione e in un modo di essere e comportarsi ormai diffuso in molte aree del nostro paese, ben al di là degli storici limiti delle zone a vocazione mafiosa.
Atteggiamento questo che elimina quasi del tutto i tradizionali confini del giusto e dell’ingiusto, del bene e del male, del lecito e dell’illecito. Con tale condotta cadono le basi del corretto vivere e la società nel suo complesso perde il giusto orientamento, avviandosi verso il conseguente venir meno dei suoi valori fondanti e l’imbarbarimento.
Per contrastare il fenomeno appena descritto, anche più pericoloso ed invasivo di quello rappresentato da un’organizzazione di criminalità organizzata, purtroppo non bastano nemmeno gli eroi come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino; occorre la presa di coscienza di intere generazioni, decise in tutte le loro componenti a contrastarne ogni manifestazione.
Ecco allora che questa attività potrebbe essere il nuovo ambito a cui destinare le attenzioni e le sollecitazioni dei tanti specialisti del sospetto elevato a sistema. Forse nel contrastare la mala pianta dell’assuefazione al metodo corruttivo potrebbero ritrovare un efficace impiego delle loro energie, anche se passare dalle innocue ma remunerative esibizioni mediatiche al contrasto sul campo, per alcuni di loro, potrebbe essere considerato un rischio forse eccessivo.