Come limitare la partecipazione dei magistrati alla politica?
L’Italia, dice il Consiglio d'Europa, dovrebbe introdurre leggi che creino un maggiore distacco tra politica e giustizia. Parla il professor Cassese
Professor Cassese, limitare la partecipazione dei magistrati alla politica. E regolare con norme più stringenti i “conflitti di interessi” dei deputati. Sono due delle dodici raccomandazioni che il Gruppo di stati contro la corruzione (Greco), organo del Consiglio d’Europa, ha rivolto all’Italia in un rapporto dedicato al nostro paese, approvato il 21 ottobre 2016 ma reso noto solo nei giorni scorsi. L’Italia dovrebbe introdurre leggi che pongano limiti più stringenti per la partecipazione dei magistrati alla politica, e mettere fine alla possibilità per i giudici di mantenere il loro incarico se vengono eletti o nominati per posizioni negli enti locali. Questo al fine di non sollevare dubbi dal punto di vista della separazione dei poteri e della necessaria indipendenza e imparzialità dei giudici. Come fare? E perché?
Programma vasto. Cominciamo da “che cosa”, poi passiamo al “come”, infine al “perché”. “Che cosa”: c’è chi vuole che la porta tra magistratura e politica non sia girevole, consentendo ai magistrati di entrare in politica e di uscire, rientrando in magistratura. E c’è chi vuole che la porta sia chiusa: se si è magistrati non si può far politica. La prima tesi comporta che i magistrati possano iscriversi a partiti, essere eletti, dirigere movimenti. Ma, quando finiscono, non possano rientrare al servizio dello stato come magistrati giudicanti o come procuratori. Conservano il posto, ma faranno altri mestieri: dirigenti statali, avvocati dello stato o altro. La seconda comporta un divieto assoluto.
Ma è possibile imporre un divieto assoluto?
Se non ricordo male, lo propose una commissione nominata da Giovanni Conso, presieduta da Ettore Gallo, ex presidente della Corte costituzionale: ineleggibilità assoluta.
Ma la Costituzione dispone solo che si possa con legge impedire la iscrizione di magistrati a partiti. Quindi, basta far politica senza essere iscritti a partiti
Punto di vista molto formalistico. Mi segua: se – come prescrive la Costituzione – i partiti concorrono con metodo democratico alla determinazione della politica nazionale, il divieto di iscriversi a partiti comporta il divieto di concorrere alla politica nazionale. Se non si può usare lo strumento partito, è perché non è legittimo concorrere al fine. Le due cose sono connesse. Tutti i modi di concorrere alla politica nazionale, quella mediante iscrizione a partiti e quella mediante l’accesso alle cariche elettive, possono esser vietati.
Mi faccia ancora fare il giurista: la Costituzione dice “politica nazionale”. Quindi si può concorrere alla politica locale.
Giurista fine, ma ancora una volta formalista. Alcune espressioni nella Costituzione non sono usate nell’accezione corrente. Ad esempio, Repubblica non vuol dire il contrario di Monarchia, ma indica l’ordinamento nel suo complesso. Così anche Nazione e nazionale, indicano l’insieme, abbracciano locale e nazionale.
Altra obiezione, non se n’abbia a male: la Costituzione dispone anche che tutti i cittadini possono accedere ai pubblici uffici. Quindi, i magistrati non godono di questo diritto di accesso?
Sempre la Costituzione, allo stesso articolo, dispone che tutti i cittadini accedono “secondo i requisiti stabiliti dalla legge”. Dunque, ancora una volta, la limitazione è consentita dalla Costituzione e deve essere disposta dal legislatore. Il quale ben potrebbe stabilire il requisito di non essere magistrati, allo stesso modo di tanti altri requisiti negativi disposti dalle leggi per molte cariche o uffici pubblici. Ricordi che un parlamentare, all’Assemblea costituente, affermò, discutendosi dei magistrati, che la ragione del divieto di iscrizione a partiti sta nel fatto che i magistrati sono “depositari dello ius imperii dello stato”, “che è qualcosa di immanente e superiore a tutte le maggioranze, ai partiti e ai governi”. Quindi, alla Costituente era chiaro che la barriera disposta tra magistratura e partiti era una barriera eretta tra magistrati e politica “tout court”.
Abbiamo parlato del “che cosa” e del “come”, passiamo al perché.
Ce ne sono tre, di motivi per disporre divieti robusti. Il primo è costituito dal fatto che l’impegno politico discende sempre dalla visibilità acquisita da qualche Di Pietro nell’esercizio della funzione di accusa o di giudizio. Quindi, si corre il pericolo di inquinare accusa e giudizio, alla ricerca di facili popolarità. Il secondo sta nelle ragioni implicite nella presenza di magistrati nella politica: l’Italia è un paese corrotto, mafioso, illegale. Non basta la politica. Ci vuole la politica fatta da coloro che lottano l’illegalità. Così si avvalora una realtà non vera circa il nostro paese. Il terzo riguarda lo sfruttamento che la politica e i partiti fanno di magistrati noti (rifletta sempre su questo: i magistrati in politica sono sempre lì perché si sono fatti una notorietà nell’esercizio della loro funzione; perché loro e non altri, la “maggioranza silenziosa”?). E’ agevole per i partiti dire: vedete, nelle mie file vi è tale o talaltro magistrato, noto come un combattente a difesa della legalità. Qui la politica sfrutta la giustizia. E dalla presenza dei magistrati in politica discende un calo della fiducia dei cittadini nei magistrati. Questi – conviene ripeterlo – non debbono essere solo indipendenti, debbono anche apparire ed essere percepiti come tali. E basta una decina di magistrati in organi dominati dalle parti (partito viene da parte) per far apparire l’intero corpo come viziato.
Ergere un muro tra giustizia e politica non ha anche inconvenienti?
Potrebbe avere un inconveniente. Quello di far sentire ancor di più la magistratura (una parte di essa) in una cittadella assediata, mentre un certo dialogo tra parti diverse dello stato è fruttuoso. Il problema, però, è che sarebbe utile avere dialoganti prescelti per motivi diversi da quelli soliti: essere stati sulle prime pagine dei giornali, avere predicato in televisione, aver pubblicato intercettazioni “pruriginose”. Insomma, i dialoganti dovrebbero essere scelti in quella “maggioranza silenziosa” di bravi giudici e di attenti procuratori che fanno con grande cura il loro mestiere.