Andrea Orlando (foto LaPresse)

La rivoluzione mancata

Ermes Antonucci

La riforma del processo penale è buona sulla carta ma inattuabile in un paese come il nostro. Parla Nordio

Il governo ha ottenuto mercoledì la fiducia sul disegno di legge di riforma del processo penale, che è così diventato legge dopo quasi tre anni di discussione parlamentare. I commenti sulle novità contenute nel provvedimento rispecchiano il clima da stadio che ha accompagnato il dibattito pubblico e politico sulla riforma: c’è chi parla di giustizia più rapida ed efficiente, e chi invece continua a lanciare allarmi su misteriosi “bavagli” alle intercettazioni e su modifiche morbide alla prescrizione in grado di favorire solo l’impunità dei “soliti noti”. In pochi, come abitudine, scendono al merito. Dov’è, dunque, la verità?

 

La verità è che la riforma penale voluta dal Guardasigilli Andrea Orlando sarebbe stata rivoluzionaria in un paese normale, che il nostro sfortunatamente non è. Perché prevede una norma che, in teoria, possiede un grande potenziale rivoluzionario: quella che impone al pubblico ministero di stabilire entro tre mesi (sei nei casi più complessi) dalla fine delle indagini preliminari il destino dell’indagato, chiedendo cioè l’archiviazione o l’avvio dell’azione penale. Una semplice norma di buon senso, ma che in Italia apparirebbe rivoluzionaria per due ragioni. Primo, perché andrebbe a porre rimedio a una violazione di legge tacita che oggi impera nelle procure italiane, cioè di giungere al termine delle indagini preliminari (fino a due anni) per poi abbandonare l’inchiesta senza decidere se archiviarla o chiedere il rinvio a giudizio (come previsto dal codice), lasciando sulla graticola gli indagati in attesa che scatti la prescrizione. La seconda ragione per cui questa disposizione sarebbe rivoluzionaria è che in Italia, come noto (a pochi), circa il 70 per cento dei reati cade in prescrizione nella fase delle indagini.

 

Imponendo ai pm di stabilire cosa intendono fare con le indagini da loro svolte entro tre o sei mesi, salvo avocazione da parte del procuratore generale, come previsto dalla legge approvata, si risolverebbe il problema del gran numero di processi che finisce in prescrizione. Ma qui casca l’asino di un paese non normale. Perché in un paese normale le procure generali chiamate a porre rimedio ai ritardi, e in alcuni casi alle negligenze, delle procure sarebbero investite di risorse sufficienti a svolgere questo compito. Invece nella grande riforma penale varata dal governo Gentiloni non vi è menzione di uno stanziamento di risorse, né di una loro razionalizzazione. Il rischio, così, è che i procuratori generali siano inondati di procedimenti senza essere in grado di smaltirli, trasferendo così la violazione tacita della legge dalla fine delle indagini alla fase dell’avocazione. “Questo è il peggior vizio italiano, di mandare in Russia i soldati con le scarpe di cartone”, dichiara al Foglio Carlo Nordio, storico procuratore aggiunto di Venezia, andato in pensione lo scorso febbraio. “Sarebbe bello e giusto che tutte le donne italiane potessero fare la mammografia entro 24 ore da quando decidono di farlo – aggiunge – ma ciò non è possibile perché le risorse non ci sono e un decreto che dicesse che le donne devono sottoporsi all’esame entro tre giorni resterebbe sulla carta, perché non ci sono le strutture e le risorse. Con la giustizia è lo stesso: ci sono incombenze burocratiche, carenze di personale e pochi soldi. Le procure generali, inoltre, sono in una situazione di sofferenza persino maggiore rispetto alle procure e potrebbero essere intasate da inchieste che non riuscirebbero ad esaminare. Anche loro, insomma, dovranno tirare a sorte per decidere quali procedimenti portare avanti e quali no”.

 

Siamo di fronte, in altre parole, a una norma bella e rivoluzionaria solo nella teoria, ma inefficace nella pratica. E la valutazione complessiva sulla riforma penale, ora legge, diventa ancor più problematica se si considera la pigrizia intellettuale con cui la classe politica ha deciso di accogliere le spinte forcaiole dell’opinione pubblica, aumentando i termini di prescrizione, in particolare per i reati di corruzione, con il risultato che le persone potrebbero essere travolte da processi infiniti con tutto ciò che questo comporta in termini di distruzione della vita professionale, familiare e personale. Per reati di corruzione e induzione indebita, una volta iniziato il processo il tempo di prescrizione potrà aumentare della metà, con l’aggiunta di 18 mesi dopo la condanna di primo grado e altri 18 mesi in appello. Risultato: quasi 20 anni di processo per i casi di corruzione. Ma se uno Stato, come sottolinea Nordio, non è in grado di concludere le indagini su reati economici entro setto o otto anni, come previsto attualmente, è uno Stato incivile e intervenire aumentando i tempi della prescrizione significa guardare il dito e non la luna.

Insomma, un grande occasione mancata, anche perché l’obbligo di decidere le sorti delle indagini in tempi certi (con le necessarie risorse) sarebbe anche in grado di ridurre il rischio di alimentare processi mediatici, che solitamente esplodono in tutta la loro inciviltà proprio durante le indagini preliminari. Ora, però, allungando la fase dibattimentale il processo mediatico tenderà a spostarsi in quest’ultima fase (sempre che l’indagine ci arrivi), con effetti ancora più distruttivi sulla reputazione delle persone e anche sul corretto andamento della giustizia.

 

Nulla, poi, viene previsto per riformare la custodia cautelare, il cui uso (abuso) sta producendo risultati allarmanti: il numero di arrestati ancora in attesa di sentenza definitiva è passato dai 18.800 di dicembre ai 19.500 di fine maggio, di cui 9.700 ancora in attesa di primo giudizio, cioè il 17 per cento del totale dei detenuti (erano 9.300 a dicembre).

 

Ultimo capitolo: lo sputtanamento mediatico, ossia la pubblicazione di intercettazioni e di atti penalmente irrilevanti sui giornali. Su questo campo, il ddl prevede una delega al governo per punire (fino a 4 anni) la diffusione di captazioni fraudolente di conversazioni tra privati diffuse solo per recare danno alla reputazione e all’immagine di qualcuno, e soprattutto una delega per evitare la pubblicazione di intercettazioni non rilevanti o riguardanti persone estranee. Ancora tutto da definire, dunque, ma il fatto che la decisione sulla rilevanza o meno delle conversazioni continui a essere affidata a pm e gip, in contradditorio con le parti, lascia campo libero a qualsiasi genere di fuga di brogliacci e atti coperti da segreto. Andrà inoltre stabilita una responsabilità del pubblico ministero, che dovrà assicurare la riservatezza degli atti contenenti registrazioni non penalmente rilevanti. Anche qui il rischio, piuttosto prevedibile, è che senza la previsione di effettivi meccanismi di valutazione dell’operato dei magistrati (affidata ai magistrati stessi) queste responsabilità rischino di restare lettera morta.

 

“La soluzione – spiega Nordio – sarebbe ricondurre le intercettazioni nel loro vero ambito, cioè quello non di prova ma di mezzo di ricerca della prova, e disciplinarle come sono attualmente le intercettazioni preventive usate per terrorismo, mafia e altri reati gravi: non hanno valore processuale ma sono solo input per capire dove proseguire le indagini e rimangono chiuse nella cassaforte del pm, senza che nessuno possa vederle. Le intercettazioni da sole non servono a nulla, infatti io in quarant’anni di carriera non ho mai visto un processo basato solo sulle intercettazioni”.

 

In attesa di vedere i contenuti del decreto legislativo che il governo dovrà emanare entro tre mesi, possiamo già dire che la Repubblica della gogna e dello sputtanamento collettivo può tranquillamente proseguire il suo cammino.