Il caso Woodcock è il nostro Watergate
Uomini della legge sono accusati di aver usato i loro poteri per cacciare un capo del governo con metodi sbrigativi e fabbricazione di indizi. Perché non si può essere indifferenti sul caso del pm napoletano (e perché non può esserlo neppure Mattarella )
In mezzo a ballottaggi, mini scissioni, mini coalizioni, mini negoziati a destra e a sinistra, ci siamo dimenticati del nostro Watergate. A quanto pare di capire, specie dopo che la procura di Roma ha portato l’accusa di depistaggio verso ufficiali dell’Arma dei carabinieri e avviato la parallela indagine sulla violazione del segreto investigativo che colpisce Henry John Woodcock, segugio in Napoli e origine dell’inchiesta sulla stazione appaltante dello stato, la Consip; a quanto pare, dicevamo, un giro vorticoso di carte truccate, nomi scambiati, intercettazioni e scoop dilapidati sulla stampa giustizialista amica aveva per scopo di dissellare il presidente del Consiglio. Nixon faceva spiare gli avversari politici e, scoperto con le dita nel vaso della marmellata, cercò di bloccare il percorso di accertamento legale, e per questo fu cacciato. Qui c’è di più: uomini della legge usano i loro poteri per cacciare il capo del governo con metodi sbrigativi e fabbricazione di indizi. Qui non ci sono soltanto comportamenti accaniti, spregio delle regole e sopra tutto quintalate di moralismi banali (memorabile la tirata contro la “furbizia levantina” di Ruby), come avvenne nel caso di Berlusconi. Qui c’è una sezione di punta dell’apparato investigativo, quello della Benemerita e dei suoi reparti specializzati, che in stretta cooperazione con una procura dal curriculum controverso, mette in atto un’opera di distruzione politica del capo dell’esecutivo con mezzi giudiziari anomali, contraffazioni e appunto depistaggi.
Tutto questo sulla stampa mainstream e in tv è diventato cronaca giudiziaria ordinaria, la scansione di un eterno romanzo italiano sulla torsione politica della giustizia. Ma il romanzo è scritto con toni leggeri, è un romanzetto qualunque, le impaginazioni sono spesso riservate, tutto si svolge in assenza di un moto di rigetto e di critica di cui dovrebbero essere protagonisti un’opinione pubblica informata e le istituzioni di garanzia della Repubblica. Intanto il giornale-tribuna dell’inchiesta e degli assalti alla politica via manette, il Fatto, si pavoneggia con elzeviri in lode di Woodcock, quel pm che secondo l’ipotesi investigativa gli ha passato le carte per esercitare una drammatica, spettacolare, distruttiva pressione, sull’Arma, su membri del governo e sulla famiglia del premier. E l’Italia, diffidente e incerta per natura, è tenuta all’oscuro, per la sostanza, di una storiaccia che ha invertito il rapporto tra guardie e ladri, facendo delle guardie lo strumento per la violazione della legge a scopo di lotta politica.
La procura di Roma compie atti dovuti, visti i riscontri investigativi, e il Consiglio superiore della magistratura torna a occuparsi del disinvolto pm napoletano, che in altra epoca mandò assolto da ogni accusa. Eppure noi abbiamo squadernato davanti agli occhi un disegno illegale e fazioso di delegittimazione di un governo e del suo capo, oltre che dei vertici dei carabinieri, con tutti i particolari in cronaca ben allineati e chiari anche per chi non abbia occhi per vedere. Non abbiamo poi forse un presidente della Repubblica che è costituzionalmente il garante ultimo della correttezza nell’esercizio della giurisdizione? Non spetta a lui agire nel merito, personalmente e attraverso il Consiglio superiore che presiede, e levare alta la sua voce per denunciare la verità di un complotto giudiziario contro la massima istituzione del potere esecutivo scelto dal Parlamento?