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Viva il bavaglio, antidoto alla spazzatura

Claudio Cerasa

Non saranno sufficienti le indagini su Woodcock per risolvere il dramma della fuga di notizie e della pubblicazione di intercettazioni coperte dal segreto. La soluzione è aumentare le pene contro i professionisti della gogna

Quando si parla di argomenti scivolosi come la fuga di notizie, la violazione del segreto istruttorio e la pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale, l’onestà, soprattutto per gli ipocriti e ridicoli professionisti dell’onestà, diventa improvvisamente una parola molto complicata da maneggiare. Di fronte alla fuga di notizie, o alla possibilità di pubblicare intercettazioni spazzatura, i professionisti dell’onestà, si sa, scelgono di agire spesso in modo disonesto e sono disposti persino a violare la legge (oh yeah) in nome di un principio che viene spacciato come il diritto di cronaca ma che in realtà corrisponde a un diritto molto diverso, che è quello di poter sputtanare liberamente il prossimo, soprattutto se il prossimo coincide con il profilo di un avversario politico. Se i professionisti dell’onestà fossero onesti fino in fondo, di fronte a una fuga di notizie o a una intercettazione spazzatura, dovrebbero fare quello che qualche tempo fa ha suggerito sul Foglio un grande magistrato, Guido Salvini, che senza girarci troppo attorno ha ricordato ai velinari delle procure che “un giornalismo serio non dovrebbe pubblicare all’istante intercettazioni che riceve, regola di etica e di correttezza da estendersi alle informazioni di garanzia” perché “i brani di una conversazione, che nessuno ascolta mai in diretta nei toni e nelle pause, sono un materiale grezzo e scivoloso dove abbondano ambiguità, millanterie, enfasi, emozioni, approssimazioni, gerghi e codici di comportamento tra gli interlocutori che le rendono aperte a più interpretazioni, non solo quella confezionata, anche in buona fede, da un investigatore”.

 

Anche in riferimento al caso Consip, Salvini ha aggiunto che i danni per la vita pubblica relativi alla pubblicazione selvaggia di intercettazioni e di atti coperti dal segreto sono sotto gli occhi di tutti: “Sono un’arma non convenzionale della lotta politica e possono far cadere un ministro, un governo, incidono sugli equilibri politici e in modo del tutto eccentrico rispetto all’effettivo contenuto ed esito di un’indagine. Molti processi si celebrano ormai tardivi e quasi postumi perché quanto pubblicato arbitrariamente ha già ottenuto i suoi effetti anche in caso di assoluzione”.

Se ci fosse davvero la volontà di fare informazione giudiziaria all’interno di una cornice di legalità e di onestà, soprattutto intellettuale, sarebbe sufficiente, aggiunge ancora Salvini, smetterla di spacciare il diritto allo sputtanamento per diritto di cronaca e “differire la messa in piazza delle intercettazioni alla fine di un’indagine perché solo in quel momento se ne può capire davvero il significato” di quel materiale probatorio (diceva il cardinal Richelieu:“Datemi sei righe scritte dal più onesto degli uomini e vi troverò una qualche cosa sufficiente per farlo impiccare”). In assenza di questo elemento, purtroppo, le verità inconfessabili relative al modo giusto per combattere con efficacia il dramma della fuga di notizie dalle procure sono due e a prescindere da quello che sarà l’iter delle indagini su Woodcock e Scafarto portate avanti dalla procura di Roma, dal Csm e dal procuratore generale della Cassazione non ci sarà mai una vera lotta contro le fughe di notizie fino a quando non ci sarà nessun disincentivo relativo alla pubblicazione di quelle notizie. Volete chiamarlo bavaglio? Sì, chiamatelo pure bavaglio.

Se escludiamo il fatto che i giornalisti e i direttori dei giornali scelgano la strada che sarebbe più ovvia e razionale – non pubblicare intercettazioni fino alla fine delle indagini – la strada concreta e pratica che porterebbe a scoraggiare i cronisti a pubblicare quantomeno materiale coperto dal segreto resta una ed è quella più lineare: aumentare le pene per i giornalisti che pubblicano ciò che per legge non dovrebbero pubblicare.

 

L’articolo 684 del codice penale, alla voce “pubblicazione arbitraria di atti di un procedimento penale”, già allo stato attuale prevede che “chiunque pubblica, in tutto o in parte, anche per riassunto o a guisa d’informazione, atti o documenti di un procedimento penale, di cui sia vietata per legge la pubblicazione, è punito con l’arresto fino a trenta giorni o con l’ammenda da euro 51 a euro 258”. La legge processuale considera coperti dal segreto “gli atti di indagine compiuti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza”. Ciò significa che fino a quel momento non si possono pubblicare quegli atti, nemmeno per riassunto (ossia nemmeno riportandone il mero contenuto). Come è evidente, la legge parla chiaro. Ma come avrete notato c’è un piccolo problema e una piccola contraddizione: un’ammenda “da euro 51 a euro 258” è davvero un disincentivo sufficiente per evitare che un giornalista violi quella legge?

 

In una bella intervista pubblicata qualche settimana fa su Repubblica, Liana Milella ha chiesto a Nello Rossi, ex procuratore aggiunto di Roma, un giudizio sul caso Consip, e rispetto all’intercettazione non penalmente rilevante relativa alla conversazione famosa tra Tiziano Renzi e Matteo Renzi, non compresa negli atti giudiziari, pubblicata in modo probabilmente illegale dal Fatto quotidiano, Milella ha scritto quanto segue: “Qualunque giornale del mondo, se l’avesse avuta in mano, l’avrebbe pubblicata”. La risposta di Rossi, di cui abbiamo già dato conto su questo giornale, è stata magistrale: “Ma con quali conseguenze? In altri Paesi ci sono giornali che hanno chiuso per le pesanti sanzioni economiche in cui sono incorsi per pubblicazioni ‘arbitrarie’, cioè contra legem. Ma in Italia il rischio è risibile, perché pagando una modesta oblazione si sana ogni violazione”. A voler essere onesti il punto è proprio questo. Basterebbe aggiungere tre zeri in più, portando per esempio da 258 a 258 mila il costo dell’oblazione, per rendere la gogna non più economicamente conveniente e combattere davvero l’orrore delle fughe di notizie. Basterebbe questo, per non fare i moralisti solo con il culo degli altri, e basterebbe aggiungere a questo un altro passaggio che misteriosamente sfugge quotidianamente dai radar degli irresponsabili e un po’ cialtroni finti professionisti dell’onestà.

 

In diritto esiste un principio, sancito dall’articolo 42 del codice penale, che riguarda la responsabilità oggettiva, che è quella responsabilità posta a carico di un soggetto senza che a costui possa essere addebitata colpa o dolo. La responsabilità oggettiva è un concetto che chiunque lavori nei giornali conosce ed è alla base di altri due articoli (57 e 58) del codice penale: “Il direttore o il vicedirettore responsabile, il quale omette di esercitare sul contenuto del periodico da lui diretto il controllo necessario ad impedire che col mezzo della pubblicazione siano commessi reati, è punito, a titolo di colpa, se un reato è commesso, con la pena stabilita per tale reato, diminuita in misura non eccedente il terzo”. Un direttore di un giornale ha la responsabilità penale e civile per ciò che esce sulle pagine di un giornale. Un magistrato che guida o coordina in un’indagine non ha invece una responsabilità diretta su ciò che esce dalla propria procura relativamente a un’indagine. Ecco: se un magistrato che coordina un’indagine sapesse che è responsabilità sua rispondere della fuga di notizie relativa alla sua indagine, e se un giornalista che sceglie di pubblicare un’intercettazione spazzatura coperta dal segreto sapesse che violare la legge non è conveniente, quel magistrato farebbe di tutto per prevenire fino in fondo le fughe di notizie e quel giornalista farebbe di tutto per evitare di non essere punito per aver violato la legge. Se ci fosse davvero in Italia un partito non ipocrita dell’onestà intellettuale, per combattere la spazzatura giudiziaria, quel partito, dovrebbe partire prima di tutto da qui.

  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.