La separazione delle carriere è una riforma non più rimandabile
"Se vogliamo ricollocare il nostro sistema giudiziario e il nostro processo all’interno di un contesto europeo, moderno ed efficiente, non possiamo non dotarci di un giudice autonomo", scrive il segretario dell'Unione delle Camere Penali
Al direttore - Giuristi, filosofi e magistrati del calibro di Giovanni Conso e Sabino Cassese, del livello di Biagio De Giovanni, o dell’esperienza di Giovanni Falcone, assieme a molti altri autorevoli esponenti della cultura e dell’accademia, si sono da tempo espressi a favore della separazione delle carriere e della necessità di tale riforma per restituire credibilità al processo penale e per realizzare un moderno ed efficiente modello accusatorio. Se vogliamo infatti ricollocare il nostro sistema giudiziario e il nostro processo all’interno di un contesto europeo, moderno ed efficiente, non possiamo non dotarci di un giudice autonomo, indipendente, osservante della “cultura del limite”. Questa espressione riassume efficacemente tutte le aspettative che una democrazia liberale coltiva nei confronti di un potere giurisdizionale che sia garante dei diritti di libertà dei cittadini di fronte all’autorità dello stato, all’azione dei pubblici ministeri, agli atti investigativi della polizia giudiziaria che a quei pubblici ministeri risponde. Il giudice non può che interpretare questo compito essenziale che lo pone come ultimo “controllore” degli esiti dell’azione penale promossa dai pubblici ministeri.
Ma se questo è il compito del giudice non potremo non riconoscere che “controllore” e “controllato”, giudice e pubblico ministero, non possono appartenere ad un unico ordine, non possono essere sottoposti al potere disciplinare di un unico organo che promiscuamente decide anche degli avanzamenti in carriera di giudici e pubblici ministeri. E’ per questo semplice motivo che in tutti i paesi europei di common law e di civil law, sia pure con sistemi differenti, le carriere di giudici e pubblici ministeri sono nettamente separate. Il profilo di sofferenza del nostro sistema ordinamentale, nato in un contesto autoritario nel quale “l’unità della giurisdizione” era espressione di una vocazione antidemocratica, non è dunque quello della “amicizia” in senso psicologico (riassunta nelle consuete espressioni: “pm e giudici si danno del tu e prendono il caffè insieme”), quanto piuttosto quello di natura strutturale caratterizzato della assenza di una vera e necessaria “separazione” intesa in senso politico, quale condizione di un indispensabile conflitto e di un fisiologico antagonismo fra poteri, volta alla efficienza ed all’equilibrio di ogni sistema democratico, complesso, trasparente e aperto.
A questo ha pensato il legislatore costituente del 1999 quando ha voluto che il giudice non fosse solo imparziale ma anche “terzo”, ovvero non solo disinteressato all’oggetto del singolo giudizio ma anche distinto da entrambe le parti del processo. Se, infatti, pubblico ministero e giudice, appartengono ad un medesimo ordine, se ritengono entrambi di essere impegnati – sia pure con funzioni differenti, e magari “concorrenti” – nella medesima lotta contro questo o quel “fenomeno criminale”, il giudice non potrà mai essere terzo, non potrà mai essere, né tantomeno apparire, tutore e garante dei diritti del singolo.
E’ per questo motivo che la separazione delle carriere con la istituzione di due distinti Csm che garantiscono reciproca autonomia e indipendenza alle due diverse magistrature, restituisce al giudice e all’intero sistema giustizia la legittimazione perduta, in una equazione semplice e razionale che i sottoscrittori hanno immediatamente compreso. Poiché da troppi anni questa semplice riforma, che non fa altro che realizzare quel che sta scritto nella nostra Costituzione e che esiste già in tutti i paesi europei, sembrava essere del tutto dimenticata dall’agenda della politica, abbiamo pensato che occorreva scriverla di nuovo e portarla in Parlamento. Farla circolare nei tribunali e fra la gente, trasversalmente, senza etichette politiche, ma con la sola forza che hanno le idee minoritarie quando mostrano semplici verità, e con questa sola forza riescono a cambiare le cose.
Francesco Petrelli è segretario Unione delle Camere Penali